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INDICE CAPITOLO V

Confronto tra stili comunicativi delle figure dell’équipe. 172

Esiste un gergo per questa équipe?. 174

Emerge un modello di comportamento condiviso?. 176

Etica e comunicazione. 178

 

 

CAPITOLO V

 

Conclusioni dell’indagine

 

 

Confronto tra stili comunicativi delle figure dell’équipe

 

 L ’indagine da me condotta e il racconto della mia esperienza, portano alla conclusione che gli stili comunicativi presenti nell’équipe di cui ho fatto parte, erano sicuramente diversi.

Per stile comunicativo intendo in questo caso  il modo di entrare in relazione con un gruppo di lavoro composto da varie professionalità, ognuna con delle peculiarità anche caratteriali, di cui bisogna tener conto.

Lo stile comunicativo di riferimento per ogni membro dell’équipe, è ovviamente quello “tipico” del suo ruolo: di mediazione - introspettivo, cioè molto diplomatico ma diretto, quello del responsabile medico; pratico- utilitaristico, per l’appunto, quello ,in generale, infermieristico; provocatorio quanto basta e passionale quello educativo; d’analisi e coadiuvante quello psicologico.

Tutto ciò si evince dal confronto stesso delle parole dei singoli intervistati, non a caso, uno o quasi , per ogni tipologia di lavoro.

La presenza di stili diversi, a domanda e risposta diretta, è percepita da tutti, ed anzi, è vissuta come  elemento scontato di ogni gruppo di lavoro.

Come fonte di conflitto, ed allo stesso tempo  di crescita.

Ovviamente, ribadisco, ogni équipe è unica nel suo essere tale, e mi vien da dire che molto probabilmente, gli stessi personaggi, osservati nel contesto di  un'altra situazione lavorativa, si porrebbero con altri personalissimi stili comunicativi, perché la componente individuale, caratteriale, di ognuno è sicuramente determinante .


Esiste un gergo per questa équipe?

 

Alla domanda “ esiste un gergo per questa équipe?” fa eco la risposta, spontanea dopo quanto detto sopra, di sì.

Il gergo in questione non è fatto solo di parole tipiche o atipiche della mia o delle altrui professionalità.

E’ un singolare modo di comunicare , in cui le diversità si fanno parte di un tutto , e questo “tutto” comporta un “modus operandi” specifico della situazione.

E’ un modo di comunicare in cui “...logicamente ci si sente in dovere di dire la nostra”, M.P., non andando contro la gerarchia, consacrata come tale, ma neppure  viaggiandoci a braccetto.

Non è qualcosa di definito o definibile, è un incrocio, non solo di “educhese” o di linguaggio medico, vedi la “...fisiopatologia dell’organizzazione...” di PC.DP, ma di caratteri, temperamenti, modi di vivere e di arricchire i confronti.

E’ un cercare di  mettere l’accento sia sull’analisi che sui contenuti pratici, non lasciando al singolo l’arduo compito di decidere l’intervento sul paziente, ma condividendolo.

Ciò ha comportato naturalmente un notevole dispendio di energie, ma alla fine si è riusciti  a diventare “forbiti”, ed allo stesso tempo ad andare a ruota libera.

Anzi, l’andare a ruota libera comportava in alcuni casi “l’eccesso di parole”, ma anche questa è una caratteristica di questo gruppo, e come tale può essere non condivisa, ma sicuramente accettata.

Dalle parole di M.P, ma anche da quelle dello stesso medico, si evince anche l’esistenza di due linguaggi di fondo, uno ufficiale ed uno ufficioso, ma perché non unificarli in un unico e singolare modo di porsi...con espressioni comuni e meno comuni, con scontri verbali e capacità empatiche?

Magari al di fuori del contesto specifico, le affermazioni e le azioni gergali poste in atto, sarebbero risultate incomprensibili, ma alla fine direi che l’importante era capirsi ed agire in tal senso.


Emerge un modello di comportamento condiviso?

 

Seppur criticando ,molto spesso, ognuno il comportamento dell’altro, il fatto di aver “creato” un modo comune di intendersi in quasi tutte le situazioni, dà risposta anche a questa domanda.

Come prima accennato, infatti, il comportamento- tipo che sviluppa nel tempo questo variegato cast di personaggi, ove non più importa da dove si viene e perché, ma chi e come si è, è un modus operandi , a volte un po’ confusionario direi, per cui si va incontro a tutte le difficoltà, senza schivarle.

Anzi, a volte ce le cercavamo proprio!

Che le scelte venissero condivise o meno, è  poi relativo.

Nel corso del tempo, c’è sempre stato un “caso clinico”, una voce fuori dal coro, persino quando si credeva nella possibilità dell’unanimità.

E poi c’è sempre la “gerarchia”.

Insomma abbiamo accettato di per sé, in modo “condiviso”, di essere un’équipe, per definizione “ribelle”, o “controcorrente”, o ancora “espulsiva” ( secondo alcuni, nei confronti dei pazienti “difficili”, adottavamo degli atteggiamenti inizialmente spigolosi, accentuando la difficoltà dell’intervento), ma fondamentalmente questo non ci offendeva, anzi, è stato uno stimolo in più, nonché motivo di rabbia, ed a volte di sconforto.

La nostra fortuna è stata la spontanea attivazione del meccanismo del “rattoppo”, cui accenna A.B.,che ha innescato l’appoggio indifferenziato tra tutti gli operatori, in nome di una lotta comune contro il conformismo, di cui troppo spesso siamo stati vittime.


Etica e comunicazione

 

Esiste un problema di etica della comunicazione nell’équipe curante?

A questa domanda risponderei di sì, ma sottolineando che non intendo per  problema etico, un problema deontologico.

E non è neppure un problema nel senso stretto del termine.

E’ un aspetto, anche questo, dei meccanismi che si innescano quando si forma un gruppo di lavoro.

Per etica, in questo contesto, intenderei la “scelta” che opera l’équipe.

E quest’équipe ha assunto un modello etico che è diventato norma,  pratica: l’andare contro.

Si è insomma cercato di mettere in atto un modo di comunicare che rispondesse al rispetto dei principi di autonomia e di autodeterminazione

Questi comprendono il rispetto per la dignità ed il valore di tutte le persone coinvolte, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione ed alla decisionalità di ogni operatore, nel rispetto della diversità dei valori e delle priorità,  con un’attenzione particolare alla verità nel costruire una relazione di fiducia che sta alla base di ogni alleanza terapeutica, perché il lavoro terapeutico dell’équipe, a mio avviso, non va destinato unidirezionalmente al paziente “bisognoso”, ma deve fungere da auto-mutuo-aiuto per tutta l’équipe, in orizzontale ed in verticale.

Obiettivo di fondo, inconsapevole, quanto utopico, di queste scelte di azione e comunicazione, era forse quello di mettere tutti noi operatori in grado di assumere in prima persona le decisioni che riguardano il nostro lavoro ed in nostro intervento sull’utenza, non “lasciandoci” soli di fronte ad un bagaglio indecifrabile di notizie, “ma accompagnandoci” in un dialogo aperto e dedicato, che impegna profondamente tutti i soggetti coinvolti nella relazione comunicativa.

Un’ultima riflessione spetta proprio all’altro soggetto della relazione comunicativa, il paziente, perché i personaggi del gruppo- curante, affrontano in primo luogo, ogni giorno, non solo  la relazione, la comunicazione o la cooperazione tra di loro, ma anche il vivere con l’utenza, con la quale, per forza di cose, si instaura un legame che va, e deve andare, oltre il trattamento diagnostico- terapeutico della patologia.

L’area della comunicazione privata della relazione medico- paziente, di per sé, investe un ambito specifico, sulla quale, negli ultimi anni, si è ampiamente trattato e dibattuto.

Tuttavia, argomentando sulla valenza etica dei comportamenti comunicativi di questa équipe, bisogna tener presente che questi, hanno un senso, in quanto nascono, si sviluppano e vengono condivisi, intorno al caso clinico, intorno a quell’ “Angeleri Giuseppe” ( nome di fantasia),che fa sì che l’équipe stessa esista, con un preciso mandato, non salvifico.

Durante i confronti, è emersa in proposito, la convinzione, ampiamente condivisa da tutti gli operatori, di lavorare non solo per il Giuseppe Angeleri della situazione, ma altresì con lui, tenendo presente che il fine dei nostri interventi, non è solo il benessere o lo sviluppo degli individui stessi, nei contesti dell’assistenza sanitaria, quanto anche il riconoscimento del ruolo e dell’importanza che le relazioni e le comunicazioni hanno per quest’ultimo.

Posso dire che il modello di comportamento che quest’équipe ha adottato, risulta da una spontanea ricerca di un trait d’union tra un’etica liberale ed una comunitarista della relazione con il paziente, con il fine di salvaguardare il diritto degli individui a far valere la proprie idee.

Nel contesto proprio d’intervento della mia équipe, bisogna tener conto del fatto che il paziente non  era sempre in grado di “ costruire piani personali di vita[1],a causa di compromesse capacità mentali ed emotive.

Nonostante ciò, i presupposti intrinseci del nostro operato, convergevano verso un intervento di aiuto e rafforzamento dell’autonomia di Giuseppe Angeleri , ben consapevoli dei frustranti limiti cui si andava incontro.

Si è lavorato con l’intento di “ sconfiggere la paura e l’ignoranza, prevenire e contrastare inganno, menzogna, insincerità, manipolazione ed occultamento delle notizie...per rimuovere gli ostacoli e gli impedimenti alla comprensione dei protocolli e degli atti medici, accrescere i livelli di comprensione e di consapevolezza...”[2] se non nell’utente, almeno in chi per lui assumeva le decisioni; e molto spesso negli operatori stessi, che in circostanze specifiche ,si trovano a dover fare ciò, non essendoci nessun altro ad averne l’interesse.

Questo ha fatto sì che l’intero gruppo di lavoro, chi più chi meno, ognuno con le proprie inflessioni caratteriali, si legasse a Giuseppe, ma parlare ,in senso etico, di un legame di amicizia, di cui sostiene la possibile esistenza l’etica liberale, in virtù del ruolo e dell’importanza che le relazioni e la comunicazione hanno per i pazienti, mi sembra eccessivo.

Sicuramente un legame affettivo, umano, empatico; tutti elementi che, ribadisco, sono alla base delle nostre professioni, delle nostre missioni accanto allo svantaggio, fisico o psichico che sia.

In ultimo, presupposti teorici di origine biomedica, legati ad un tentativo di mediazione tra l’etica liberale e quella comunitarista, ricordano che ciò che conta, nei processi comunicativo- relazionali,  non è tanto il comunicare in quanto tale, ma le scelte che ne conseguono, e suggeriscono di considerare la comunicazione stessa, come mezzo atto a favorire processi di crescita individuali più appropriati.

Azzarderei insomma nel pensare ad una comunicazione quasi come “strumento terapeutico”, sia per il singolo paziente, che per il gruppo, anche quello curante.

E la scelta, inconsapevole o meno, di essere un gruppo connotato da una forte valenza affettiva, ha permesso sia a me, ma credo ad ognuno di noi, che a testimoniare che tutto il lavoro fatto nel tempo, le valutazioni, pro e contro Giuseppe, gli scontri e gli incontri, non è stato proprio  tutto sbagliato, dal momento che ogni qualvolta ci si ritrova,oggi, a distanza di quasi un anno dalla conclusione di questa esperienza,  Giuseppe  ha ancora il sorriso nel rivederci, Giuseppe ci corre ancora incontro, Giuseppe ci chiede ancora un aiuto.

Questo è personalmente il ricordo “ vissuto” più bello che mi porto dentro, perché Giuseppe mi fa capire che tanti sforzi hanno giovato ad una buona causa.

 Questo racconto, etico e comunicativo, della mia esperienza, è, come preannunciato all’inizio, sicuramente esposto con una forte connotazione soggettiva.

Mantenere l’obiettività di fronte ad un “avvenimento di vita”, come è stato per me il far parte di questo gruppo, posso garantire che non è stato semplice.

Non voglio presentare un quadro idilliaco di quello che comunque è stato un ambiente  professionale, come può essere un’équipe di lavoro, tanto meno dare una valenza etica assoluta degli avvenimenti comunicativi.

Tenendo conto delle esperienze fatte dopo, ho cercato solo di raccontare la storia di un bel gruppo, nato e cresciuto dal nulla.

E chissà quanto ancora avrei da dire se tutto ciò fosse andato avanti.

Chissà .....,l’importante è averci creduto.



[1] S.Bartolommei.  Problemi etici della comunicazione biomedica, tratto da A.Fabris Giuda alle etche della comunicazione, ETS, Pisa 2005.

[2] Ibidem.