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INDICE CAPITOLO I

Cenni di etnografia.

Descrizione della mia esperienza in èquipe....e della mia équipe.

Tempi, spazi e ambientazione.

 

 

CAPITOLO I

Etnografia come punto di partenza

 

 

Cenni di etnografia

 

Come ci ha mostrato l’etnografia, disciplina di cui qui utilizzerò in parte metodi e concetti, osservare e descrivere il mondo in situazione, non sono più elementi marginali  della problematica sociale, quanto il punto di partenza , aperto e critico, per affrontarla.

Letteralmente per etnografia si intende attività di ricerca in qualsiasi campo, condotta mediante lunghi periodi di permanenza.

Quando si entra nell’ambito della descrizione di fenomeni sociali, si parla di ETNOGRAFIA SOCIALE.

Il tutto in base a prospettive non scontate, in quanto “fare etnografia” non significa esclusivamente “descrivere”, ma farlo in modo da illustrare aspetti poco evidenti  di relazioni, mondi, professioni, istituzioni, ecc.

Impegnarsi nella ricerca etnografica vuol dire “ scendere per le strade e guardarsi intorno”, metafora parziale che rappresenta l’inizio di un lavoro condotto sulla base di una già adeguata preparazione scientifica sull’argomento che si intende affrontare.

Sarà un  lavoro che  avrà un proprio stile di ricerca e di analisi, ma non una metodologia chiusa o  rigidamente definita.

A questo proposito,  sembra opportuno indicare alcuni principi comuni alle principali forme di etnografia sociale al fine di rendere più comprensibile  il testo che analizzerà le caratteristiche comunicative  proprie di una diretta esperienza in micro-comunità educativa .

Tali principi sono:

1.                La ricerca etnografica è osservazione e descrizione delle pratiche sociali;

2.                La ricerca etnografica non pretende di essere oggettiva o esaustiva, ma di illustrare in modo originale aspetti, mondi, dimensioni della vita sociale;

3.                I metodi  di osservazione e descrizione etnografica sono caratterizzati sia dalla soggettività dei punti di vista del ricercatore che dalle diverse possibilità di accesso al mondo oggetto di ricerca, motivo per cui il risultato di quest’ultima non può essere interpretato senza tener conto dei suddetti fattori;

4.                 Come garanzia  della parziale oggettività del suo lavoro l’etnografo adotterà trasparenza nelle descrizioni e nelle ragioni che lo  hanno portato a specifiche conclusioni.

Per i suoi stessi principi, l’etnografia non è pertanto semplicemente un metodo per descrivere mondi sociali, il che risulterebbe dogmatico, ma attività di ricerca pratica e programmatica.

Gli autori della Scuola di Chicago, che produssero una vasta gamma di studi etnografici di rilievo ai primordi di questa disciplina, accettavano ad esempio il ruolo di “ scienziati sociali riformisti “ , consapevoli di agire in nome della curiosità scientifica dei fenomeni sociali che avrebbe suscitato interesse nei confronti del loro lavoro sui diversi mondi e modi sociali e avrebbe dato inizio ad una serie di trasformazioni nell’operare dei ricercatori  futuri.

L’esperienza etnografica, nel momento della sua fondazione come scienza sociale, appariva come una raccolta di dati il cui obiettivo risultava quello di cogliere “l’autenticità” della cultura dei soggetti studiati; cardine di tale raccolta dati è l’osservazione partecipante.

L’antropologo Clifford, definisce l’osservazione partecipante come “dialettica di esperienza e interpretazione”. In questo modo avviene un passaggio continuo tra “l’interno”, cioè l’analisi dei fatti e comportamenti specifici, e l”esterno”, che si riferisce ad un ambiente ed un contesto più ampio.

L’interazione che caratterizza il campo di indagine permette così l’edificazione di un “mondo significativo comune”, fatto di significati culturali condivisi.


Descrizione della mia esperienza in èquipe....e della mia équipe

 

Il metodo etnografico, e quindi l’osservazione partecipante descritti, sono il punto di partenza per l’elaborazione di questo testo.

E’ attraverso la mia diretta esperienza, in un micro-contesto linguistico quale quello di un’equipe multidisciplinare, che mi è stato possibile analizzare la comunicazione pedagogica per tracciarne aspetti contenutistici e relazionali.

Mi sembra che quello etnografico sia un metodo che aiuta a studiare il problema della coordinazione / comunicazione in èquipe da un’angolazione diversa rispetto a quella di altri studi sociologici e psicologici sul tema.

Per tre anni ho fatto parte, in qualità di “Educatrice“, di un’èquipe di recupero psichiatrico in una comunità residenziale di tipo B, ovvero comunità semi-protetta che ospita utenti affetti da svariate patologie psichiatriche.

 Sede di lavoro Torino.

La comunità riabilitativa è una  struttura a carattere residenziale che fornisce assistenza psichiatrica ad utenti con degenza medio –lunga, con funzioni terapeutiche di riabilitazione per un massimo di venti persone [1].

Vi risiedono persone che hanno frequentato programmi terapeutici sia in Comunità, sia nei servizi di salute mentale, e che hanno raggiunto una sufficiente stabilizzazione della sintomatologia, senza tuttavia il grado di autonomia necessario per il reinserimento nel sociale o il ritorno in famiglia.

Il programma di comunità è  orientato verso attività di socializzazione, su programmi lavorativi semplificati e protetti, nonché - ove possibile - sul lavoro con le famiglie. 

Scegliere di lavorare in psichiatria non è una scelta facile, soprattutto per chi ha poca esperienza nel settore  socio-sanitario e per il fatto che, fino a qualche anno fa, il “matto” fuori dal manicomio faceva ancora un po’ paura. E’ stata una scelta azzardata, ma credo ben riuscita.

L’èquipe di cui ho fatto parte si è definita nel corso del tempo; il drop-out di operatori è stato abbastanza frequente, almeno fino a quando non si è riusciti a  definire  margini di intervento e possibilità di riabilitazione vera e propria, e fino a quando il confronto/scontro,  quindi l’integrazione delle varie figure e dei vari ruoli, non si è definita senza  creare disagi ad ogni singolo operatore.

Il principio stesso della riabilitazione in psichiatria è sostenibile nei termini di una più possibile reintegrazione socio-territoriale, ma auspicare il miracolo della guarigione è ancora difficile.

 Il che ha rappresentato per tanti un grande svantaggio per l’impegno delle risorse individuali e una mancata soddisfazione.

Dopo un periodo di osservazione, direi quasi accademica, nel servizio, ho cercato di assumere un atteggiamento che non fosse solo professionale ed in linea con l’impostazione “ospedaliera “ , ma anche di ricerca.

Quello che intendo fare adesso è  presentare e raccontare la mia esperienza, contestualizzando le mie impressioni e concentrando l’argomentazione sull’aspetto comunicativo e relazionale.

Spero che la visione soggettiva della protagonista nella ricerca, non significhi la caduta della validità delle osservazioni, conscia tuttavia del sapore biografico del testo.

La relazione che si instaura di fatto con gli altri membri dell’èquipe e con l’utenza, coinvolge profondamente; il distacco e il mantenimento “dell’occhio clinico” sono a volte solo un lontano ricordo.

Proprio  a questo  serve un’analisi complessiva del vissuto per tracciare le conclusioni dell’attività di ricerca svolta e renderle oggettive.

Tornando all’équipe, alla “ mia” équipe, in ultimo, si è definita paradossalmente  come una specie di piccola comunità multietnica. Ve la presento:

Dott. PierCarlo DP è lo psichiatra responsabile della CT; Pino F. prima e Franca DP dopo, sono i coordinatori infermieri succedutisi nei tre anni di esperienza.

Del gruppo infermieri hanno fatto parte diversi colleghi, anche loro avvicendatisi nel tempo per scelte di vita ( pensionamenti o trasferimenti), ma in ultimo ne sono rimasti i cardini Dana I.,  di nazionalità rumena, ed Enzo G.

Ecco gli educatori: io, Rosy V., diventata referente dopo un anno per fortuite circostanze ed avvicendamenti; Elena B., educatrice con formazione da psicologa; Cristina C., laureanda in Scienze dell’Educazione e la più giovane del gruppo; Mary C., educatrice peruviana plurilaureata e con una vasta esperienza nel sociale; Manuela P., educatrice tedesca in riqualifica, un personaggio poliedrico; Guido S., educatore  cileno multiformato ad impostazione filosofica,;Daniele R., educatore professionale.

A questa schiera di personaggi si aggiungono Saverio M., coordinatore esterno del gruppo educatori nonchè presidente dell’Anep ( Associazione Nazionale Educatori Professionali),nonostante la giovane età; Giuliana G.,psicologa della CT; Antonella B.,anche lei psicologa, che condurrà, a partire dal 2003,il  gruppo di recupero delle abilità sociali per alcuni utenti; e la dott.ssa Elena P., altro medico psichiatra di riferimento, in sostituzione del responsabile.

A parte la mia “nazionalità” siciliana, dunque, portatrice di un modo di lavorare, ideologicamente e per antonomasia diverso,caratterizzato dalla lentezza espressiva, sia di movimenti che di parola, a volte anche superficiale, c’era sicuramente un incontro/scontro di mentalità, culture e lingue diverse nel gruppo, che nel complesso è stata per me una vera e propria scoperta, ricca di significato, che ha visto un perfetto amalgamarsi delle diversità di ognuno, seppur con i suoi momenti difficili.


Tempi, spazi e ambientazione

 

Di per sé, la mia esperienza si divide in due periodi: un primo periodo di tre mesi iniziali ai quali è corrisposta un’interruzione del servizio, per mia scelta, dato che trasferire definitivamente la propria “vita” a mille e più chilometri di distanza dalla “casa madre” ,poco più che ventenne ,non è stato facile.

Il  mondo del lavoro, quello vero, ad ogni modo, mi ha conquistata.

Dopo una pausa di quattro mesi sono tornata a Torino, a lavorare per la stessa cooperativa sociale, e, voglia il caso, sono stata reinserita nello stesso servizio: comunità psichiatrica afferente al Dipartimento di Salute Mentale 

“ Giulio Maccararo ”, ASL 3, Torino.

Sono rientrata in un periodo di relativo caos generale: cambio di infermiere/coordinatore, turn-over di educatori, trasferimento di infermieri professionali, cambio di struttura (purtroppo o per fortuna gli edifici fatiscenti non esistono solo nel meridione), elezioni amministrative (il nesso tra politica e settore socio- sanitario è, come ci mostra l’osservazione quotidiana,profonda e tocca molteplici aspetti).

Da lì è iniziato un  lungo cammino, durato circa tre anni.

L’èquipe si è definita nel giro di sei mesi; definita nel senso che il clima rilassato e di collaborazione ha consentito ai membri di familiarizzare con l’ambiente e con il sistema, che nonostante i suoi nei, come qualsiasi istituzione pubblica, funziona. Il gruppo di lavoro si è mantenuto stabile, seppur con qualche momento di crisi,  e ciò mi ha permesso di individuare gli elementi di spicco della dimensione collettiva di lavoro, oggi completamente riconosciuta.

Sembrerà marginale, ma la familiarizzazione con la nuova struttura, dotata di nuovi studi, sale riunioni, sale attività e spazi risocializzanti, ha creato qualche incognita, sia per l’impatto del gruppo-utenti, catapultato come dalle stalle alle stelle, sia per l’impatto del gruppo di lavoro, finalmente alleggerito dal carico dell’insoddisfazione per l’ambiente circostante e le risorse strutturali.

 Il  trasferimento in una sede più adeguata sia al tipo di utenza, sia alle finalità del servizio, ha significato parecchio sia per il benessere psico-fisico del paziente, fino ad allora circondato solo da scheletri di mobilia e senza un minimo di accoglienza, sia per una rivalutazione in positivo del servizio territoriale in questione, il quale, fino a quel momento, aveva attirato le critiche dei familiari ( propriamente fondate visto lo squallore che circondava i gli utenti e  nei confronti delle quali non restava che dire “avete perfettamente ragione...”), nonché  dell’opinione pubblica e dei media locali.

Ricordo ,infatti ,che proprio grazie al loro intervento “pubblicitario”su un quotidiano cittadino, si scatenò la corsa contro la burocrazia, che sino ad allora, sembrava avesse ostacolato tutte le pratiche per l’attuazione del  trasferimento della Comunità.

Stranamente, un mese dopo la pubblicazione di questo articolo- denuncia, tutte le firme attese vennero apposte e fu concessa l’abitabilità della nuova struttura, che, pur non essendo un’ oasi nel verde illuminata da un caldo sole, come si potrebbe immaginare un luogo di cura a lunga degenza, si presenta comunque accogliente, suscitando una certa dose di sicurezza in tutti gli attori coinvolti sulla scena.

All’inizio a dir la verità, dall’interno stesso della “produzione”, se ne criticò l’aspetto ospedaliero ( lunghi corridoi disposti su due piani e sui quali si affacciano le camere degli ospiti);ma personalmente credo che tutto ciò volesse solamente fomentare altri contrasti gerarchici.

Finalmente si poteva lavorare per dare “vita” a qualcosa di positivo,senza guardarsi intorno nell’inquietudine generale.

Per tutto ciò bisogna ringraziare in un certo senso la lotta politica del momento.

Con ciò mi riallaccio brevemente a quanto accennato sopra sul nesso tra politica e ambito socio-sanitario: difatti lo scontro tra uno schieramento e l’altro, da ciò è partita la pubblicazione del suddetto articolo giornalistico, toccava, in periodo di elezioni  regionali  e amministrative, un terreno molto a cuore ai cittadini, qual è quello della cura e della salute pubblica.

A Torino ,nell’ultimo decennio, c’è stato molto movimento nel sociale; tanti servizi sono nati, altri si sono rafforzati, una realtà quasi imparagonabile a quella del sud- Italia.

 Sul  momento la denuncia delle fazioni opposte alla gestione presente era una dichiarata mossa politica, tentativo di screditare l’operato condotto negli anni sul versante assistenziale.

Ma tutto lo scalpore creatosi in questa situazione, ha fortunatamente  giovato alla causa del trasferimento. Il resto rimane al pur legittimo scontro politico delle parti.

Tutte le organizzazioni comunque, risentono fortemente delle pressioni e dei condizionamenti provenienti dal contesto economico, sociale e culturale in cui si collocano,il che in alcune circostanze non rappresenta però un’opportunità di crescita per queste stesse.

A volte infatti,  l’influenza anche “politica” può generare profonde crisi.

In questa nuova dimensione abitativa, con i suoi riflessi psicologici, che ho cercato di mettere in evidenza,l’èquipe si è mantenuta stabile sino alla mia permanenza, e poi sciolta in parte per motivi contingenti; anche qui c’è di mezzo la politica,ma nei suoi risvolti negativi, questa volta di gestione dei vertici dell’Azienda Sanitaria.

La gara d’appalto che assegna il servizio educativo alle cooperative sociali infatti, che di norma avviene alla scadenza di tre anni di aggiudicazione, è stata vinta da una nuova e piccola cooperativa sociale, che sino al luglio 2004 gestiva unicamente il servizio territoriale dei Gruppi Appartamento dello stesso Dipartimento di Salute Mentale.

Il che ha comportato, senza addentrarmi troppo nei risvolti critici della situazione, il cambiamento totale delle équipe educative dei servizi comunitari, e, pertanto, il conseguente trasferimento di molti educatori,me compresa,figuranti della cooperativa uscente, in altri servizi della stessa.

Questo piccolo mondo che, come appare dalla mia descrizione,dipende dalle contingenze esterne all’ambiente in cui è inserito, ivi comprese quelle socio-politiche, ha dato vita ad una rete di forti relazioni; per cui credo che ad esso ben si attagli l’indagine etnografica in quanto “prodotto di una ricostruzione compartecipativa” che richiede una dimensione di intelligibilità ed una regolazione comune del contesto.

 

[1] art. 1 regolamento regionale 27giugno 1985 n. 8 (Delib. R.Lazio 11887 cit.).