INDICE CAPITOLO IV Studio
sulla comunicazione del lavoro ed analisi del linguaggio.
Presentazione delle interviste
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CAPITOLO IVLa problematica etico- normativa nella comunicazione da un punto di
vista pratico: la ricerca
Studio
sulla comunicazione del lavoro ed analisi del linguaggio.
In
questo capitolo entrerò nel merito dell’indagine etnografica,
presentando le interviste, alla luce di principi teorici, presentati
nel Cap. I. Prima
però vorrei spendere qualche parola circa il tema della comunicazione
“professionale”, onde fornire gli elementi per una più chiara
comprensione delle successive interpretazioni. L’elemento “comunicazione”
,verbale o non verbale, è,a mio avviso, mezzo rivelatore di tanti
meccanismi e di tante componenti del lavoro. Al riguardo Wunderlinch e Maas precisano: “Comunicazione non è solo uno scambio di intenzioni e di contenuti
verbali:è anche questo; essa è però soprattutto creazione di relazioni
reciproche che determinano ciò che può essere
chiamata la piattaforma della comprensione , dalla quale intenzioni
e contenuti ricevono il loro significato concreto nei contesti
operativi” (1972). Lo studio sulla comunicazione nel lavoro, e la successiva analisi dei
linguaggi che si incontrano- scontrano, vorrebbe appunto rivelare qualcuno
di questi meccanismi, che alla fine, inconsciamente, regolano l’agire
del gruppo in questione. Tutto
il periodo di osservazione e di lavoro in questa équipe mi permette
adesso di documentare ed esporre alcune chiavi di lettura del lavoro
svolto. L’obiettivo è quello di cercare di
valutare in primis la valenza etica dei meccanismi di comunicazione
e ,quindi, come il gruppo stesso riesce a regolare, a “ normare”,questi
meccanismi. L’analisi delle comunicazioni orali e non, esige naturalmente una
riflessione sulla natura
delle interazioni, sullo statuto ed i modi di impegno dei partecipanti,
che, nelle situazioni di lavoro collettive,come vedremo tra poco nelle
interviste, dove gli attori
intrattengono rapporti di azioni complessi, sono molto delicati da
circoscrivere. Queste situazioni pongono problemi particolari per la
costruzione/divisione del contesto e per la determinazione di quadri di
analisi pertinenti. Numerose sono le interazioni,come prima descritto, brevi e meno brevi,
aventi luogo nei momenti di incontro ufficiali, nei corridoi o nei
passaggi veloci. Per capire qualcosa in tutto ciò, non è neanche sufficiente arrestarsi
ai microscambi, ma bisogna raggruppare questi secondo sequenze più ampie,
che creano l’incatenamento dei comportamenti. L’analisi della comunicazione di un solo personaggio, permette in parte, ma solo in parte, di costruire il contesto di analisi pertinente. Si è ben lontani dalla situazione di scambio normale dove i partecipanti rivestono a turno il ruolo di locutore ed interlocutore. Frequenti sono anche le comunicazioni “aperte”, la cui struttura di
partecipazione fluttua e comprende una parte di indeterminazione. L’analisi sistematica delle riunioni e dei momenti di scambio permette
di far apparire i modelli comunicativi affini e differenti. Si vede come essi abbiano per principio la trasmissione
dell’informazione,ma l’analisi dettagliata delle pratiche e dei
discorsi mostra che le trasmissioni, orali soprattutto, sono ben lontane
dal ridursi ad un semplice trasferimento da un emittente attivo ad un
ricevente passivo. Tutti infatti reagiamo con commenti, note, apportiamo le nostre
correzioni discorsive, diamo il nostro parere durante una conversazione di
gruppo. Parlo di modelli comunicativi perché essendo un’équipe
pluridisciplinare, i linguaggi che si integrano sono molteplici. Un punto cruciale,nodo dei modelli di matrice
basagliana è appunto l’integrazione
delle competenze professionali, dunque la realizzazione della cosiddetta équipe
integrata. Un luogo pregno di significati, a volte quasi
mitologico. Un luogo che si propone come garanzia di un lavoro realmente
democratico. Ma anche il luogo delle contraddizioni, della
rabbia, delle idee che si combattono, delle decisioni non prese, dei
poteri che si scontrano. La sincronizzazione tra i linguaggi dei
diversi personaggi del gruppo curante è comunque la risposta al
“mandato/regola” del sistema, come sottolineranno anche E.S. e M.P.; e
non potrebbe essere altrimenti. Quindi la libertà dell’équipe nella definizione e risoluzione dei
problemi, è viziata da un mandato, che in realtà è un giudizio
aprioristico, forse non morale, ma sicuramente etico, prescrittivo. L’interpretazione e lo studio degli scambi avvenuti nel gruppo è
condotta inoltre secondo il concetto dualistico informazione/comunicazione. Un ‘espressione in cui i due poli sembrano aver un vincolo
inscindibile, in quanto è grazie al passaggio dell’informazione che
avviene la comunicazione. In realtà, la comunicazione “per
eccellenza”, della quale intendo argomentare, non è solo un
passaggio di informazione. Nella pratica, come gruppo di lavoro, sia dal di fuori, quindi da altri
servizi, che dall’interno stesso, cioè dal responsabile, ma anche da
voci che si sono levate tra gli operatori di base, siamo stati definiti
come un gruppo che aveva difficoltà a comunicare, in quanto si perdeva
nei passaggi delle informazioni. Se ad esempio io, R., dimenticavo di segnare le presenze del pranzo,
informazione passibile di dimenticanza, si scatenava un meccanismo a
catena di ricerca di chi era stato a non segnarlo,del perché, e via
dicendo. E sebbene effettivamente tutto ciò rappresentasse un mancato passaggio
dell’informazione, quello che vorrei sottolineare, è che l’elemento
comunicazione va ,secondo me, al di là di ciò. Perché ,nonostante gli ipotetici
incidenti di percorso, come quello sopra descritto, era, e sarebbe,
secondo me, un gruppo che riusciva a comunicare bene, e non solo il visto,
ma anche il sottinteso. Non sapeva segnalare solo chi era presente a pranzo, ma riusciva a dare
spazio al pensiero di ognuno, verbalizzato ed ascoltato, anche se non
sempre condiviso. Ed anche la non- condivisione è
comunicazione. Il problema dove sorge? Sorge quando bisogna codificare
per iscritto questo immenso bagaglio di informazioni, perché sia “
consultabile” da tutti ed in qualsiasi momento. Il contenuto specifico della comunicazione scritta, non varia nella
sostanza, pur se annotato da diversi operatori. Quello che cambia è il tono, critico o a-critico, incisivo o passivo, e
che rende la comunicazione soggetta a svariate interpretazioni, in quanto
emerge sostanzialmente il filtro personale di ogni operatore. Il bagaglio linguistico di ogni operatore, inoltre, per assurdo
influenza notevolmente il passaggio della comunicazione: molto spesso i più
grandi conflitti, i più consistenti scontri ideologici cui ho assistito,
sono scaturiti proprio da una mancanza di comprensione linguistica
reciproca. Certo il contesto di cui ho fatto parte era di per sé anomalo in
quanto, come descritto all’inizio, équipe “ multietnica”. Per cui a volte si dava vita ad
una grande confusione di significati! Anche se mi ha sorpresa il fatto che molto spesso il personaggio
portatore di una cultura ed un bagaglio comunicativo altro, fosse proprio
lui a mettere chiarezza nel melting-pot che si viene a realizzare in
alcune circostanze. Difatti le diversità linguistiche tra il mio gruppo di colleghi, non
hanno quasi mai rappresentato un ostacolo. Quando si pensa ad un gruppo di persone di diverse nazionalità che
lavorano insieme, la prima cosa che si può supporre, è che vi siano
grosse difficoltà, legate prima di tutto alla diversità della madre
lingua. Come si può infatti sperare di cogliere appieno il senso
dell’informazione passata dalla collega rumena se ci sono delle
incomprensioni linguistiche? In realtà ho appurato che non è proprio così. A parte il fatto che i colleghi con cui ho lavorato parlano un
correttissimo italiano, a volte anche meglio degli italiani stessi, senza
inflessioni dialettali (
non nego che mi sono ritrovata ad essere ripresa da Dana per avere
utilizzato un plurale poco italiano). L’essere in un Paese ospite, inoltre, spinge gli stessi, e me
compresa, ad adeguarsi il più possibile linguisticamente al contesto,
soprattutto quello professionale. Non ci si sforza una, ma mille volte per essere corretti e
comprensibili, rischiando anche di cadere nel meticoloso. Le difficoltà maggiori dunque, sono rappresentate ,non già dalla
lingua diversa, quanto dal temperamento di “appartenenza”,dallo status
mentale, con conseguente status linguistico, che ognuno porta con se,
frutto di un personale percorso di crescita professionale, e oserei dire,
anche umano. M.C., ad esempio, è stata la persona che ha risentito maggiormente
della “diversità”; molto spesso dubitava di essere capita in tutto
cosa diceva. Passava da momenti di sconforto, verbalizzati, a momenti di tensione che
scaricava sull’intero gruppo. Il problema, a parer mio, non
stava in ciò che diceva, ma erano le modalità in cui esprimeva il suo
pensiero. È il tipico meccanismo di attacco/ difesa di chi parte svantaggiato in
un qualsiasi contesto, in questo caso quello comunicativo. Lei stessa sostiene : “ voi non riuscite a capire cosa io voglio dire,
ed è per questo che non prendete in considerazione il mio pensiero.” In realtà dietro questo modo di porsi, credo (da buona
educatrice/psicologa!), si celasse la paura di sentirsi culturalmente
inferiore, nonostante due lauree conseguite nel suo Paese ed una in
Italia. Perciò, per intere riunioni , e non solo ( ho passato intere serate di
fine turno ad ascoltarla e cercare di psicanalizzarla, a torto, visto che
alla fine era riuscita a dirmi che uno dei suoi problemi ero io) dava
energicamente sfogo alle sue idee, progettuali e non. Succedeva sovente che ci si guardasse tutti sbigottiti perché
assurdamente il suo pensiero collimava del tutto con quello della maggior parte dell’équipe, pur se lei pensava
il contrario. Per quanto riguarda invece i motivi
di scontro con me, questi non riguardavano solitamente l’intervento
sull’utenza, in tale ambito ognuno ha il suo personalissimo modo
di porsi, e nell’équipe è sempre stata rispettata l’individualità
di ognuno. Solo quando la nostra esperienza come gruppo di lavoro andava
esaurendosi, per motivi gestionali, siamo riuscite in qualche modo a
spiegarci, e devo ammettere che le sue affermazioni mi hanno lasciata di
stucco. Si stupiva del fatto che io, pur essendo, come lei ,in un ambiente
estraneo a quello mio di appartenenza (
considerava anche me
un po’ straniera) ero riuscita a costruire una mia dimensione, avevo
trovato degli spazi ed ero riuscita in poco tempo, qualche anno, a
raggiungere degli obiettivi. Di conseguenza si poneva in una sorta di atteggiamento antagonistico:
ogni mese, quando ultimavo lo schema delle turnazioni per quello
successivo, puntualizzava e commentava ogni virgola ( ad es., in questo
modo non raggiungo il monte ore, quel mattino avrei un impegno, perché a
D. non hai dato i miei stessi turni, ecc.ecc.,). Io, non so perché, pur non avendo un’indole innata a sfuggire il
confronto, ho sempre adottato un atteggiamento diplomatico, cercando di
andarle incontro, esigenze
pratiche alla mano, non sapendo che dietro quell’atteggiamento di
rivalsa, si celasse il malessere poi manifestatomi verbalmente, dovuto
alla differenza dei ruoli, forse.... L’interpretazione teorica che posso dare a questo appunto discorsivo,
manca di un vero e proprio punto di riferimento: è possibile ricollegarlo
ad un concetto di difficoltà
caratteriale, di cui parlerà anche A.B.,in qualità di psicologa, ma
anche alla tendenza del gruppo stesso ad identificare il “capro
espiatorio” per eccellenza, anche dal punto di vista della
relazione- comunicazione. Per chiudere questa parentesi, dedicata ad uno spiegone di quelli che
possono essere i diversi linguaggi presenti in un cast variopinto, come
l’équipe in questione, con annessi esempi concreti, lascerei la parola
ai colleghi, chiamati a rispondere ed a portare un contributo alla mia,
alla nostra causa. Presentazione delle interviste
La scelta dei personaggi da intervistare non è stata difficile. Tutte persone con le quali ho instaurato un rapporto professionale, e
non solo, e che mi hanno inconsapevolmente dato un grande aiuto durante
gli anni di esperienza vissuta. Colleghe/ colleghi disponibili al confronto ed al dialogo, alla scoperta
ed alla cooperazione. Personaggi distinti,
professionalità diverse, con vite diverse, ma convergenti. Dana Iosifescu, 35 anni. Infermiera professionale. Nazionalità rumena.[1] D. Parlami della riunione
d’équipe. R.
La
riunione d’èquipe si svolge una volta la settimana. Vi
partecipano tutti gli operatori dell’équipe; medico psichiatra,
infermieri e coordinatore infermiere, educatori, psicologa di comunità,
ed altri vari “ospiti” che di volta in volta possono presentare dei
casi o altro. D. A che cosa serve secondo te la riunione
d’équipe? R.
La riunione d’équipe ha varie
funzioni; organizzare le attività della settimana, elaborare i progetti
individuali per ogni utente, aggiornare l’équipe su varie comunicazioni
urgenti o meno e per presentare anche dei casi. D. I casi degli utenti si discutono dunque durante la riunione? R. Anche. D. Ci sono altri momenti in cui si affrontano i casi? R. Si, perché la riunione d’équipe ha la durata di circa due ore, a
volte non basta per la presentazione dei casi, pertanto durante le
giornate si fanno delle mini- riunioni in via informale, per avere più
informazioni sui casi D. Com’era il “clima” delle ns riunioni? R.
Non si può parlare di clima o dare
una definizione in generale, perché dipende molto dalla situazioni e
dalle problematiche che da una settimana all’altra si ripresentano, ed
anche da chi c’è in riunione, perché non sempre sono presenti tutti
gli operatori. D.
E’ stato difficile per te interagire/comunicare con professionalità
diverse dalla tua? R.
Assolutamente no. D
.Ed in particolar modo con gli educatori? R.
No, anzi ho avuto modo di conoscere
un lavoro di cui sapevo poco. Per me è stato un arricchirsi. D.
Ci sono stati momenti di “ incomprensione” sia con gli educatori, che
con le altre figure dell’équipe, infermieri compresi? R.
Si, c’è stato di tutto. Anche
momenti difficili. Ma il tutto secondo me è molto soggettivo. Dipende da come sei tu,
da come ti senti in alcuni momenti, a volte ci sono anche delle
interferenze personali che caratterizzano l’interazione con i colleghi. D.
Ci sono stati scontri nell’équipe? R.
Non li definirei proprio scontri.
C’era chi aveva una filosofia di lavoro un po’ più rigida rispetto ad
altri. D.
Cosa intendi per rigidità? R.
Intendo la rigidità nel rapporto
con le mansioni del collega. Nel nostro lavoro è difficile dire dove
finisco di lavorare io e dove deve iniziare a lavorare l’altro. Quindi
un educatore non dovrebbe dirmi
“ questo tocca a me e questo tocca a te”, a meno che non si tratti di
un’iniezione. D.
Influisce secondo te la diversa formazione professionale sugli scambi? R.
Si, la preparazione è diversa, e
forse l’approccio frenetico del personale sanitario
si scontra con l’approccio d’analisi dell’educatore,
approccio che personalmente invidio e mi piacerebbe imparare nel tempo. D.
Quando si studia un caso, riescono tutti a dire la propria opinione? R.
Dipende, ma grosso modo si. Un
limite è il tempo di cui si dispone. A volte non si riesce ad affrontare
tutti gli aspetti di un caso. D. Si ripresentano a volte
gli stessi scambi riguardo un caso? R.
A volte si, soprattutto quando si
affrontano casi di pazienti cronici, che creano più difficoltà di
confronto ed ai quali non si può dare una soluzione. D.
Secondo te si parlano diversi linguaggi in un’équipe? R.
Anche se sono diversi, io non me ne
accorgo. D.
Le figure dell’équipe comunicano tra di loro tutte nello stesso modo,
ad esempio un educatore con l’infermiere o con il medico, o il medico
nei confronti dell’équipe? R.
Si, direi di si, almeno nella nostra
équipe era così. Non ci sono troppe paure a dire cosa si pensa. D.
Secondo te era un’équipe che comunicava bene? R.
Si. C’erano dei buoni meccanismi
di comunicazione. Insomma, un paesino piccolo e democratico, dove ognuno
poteva dire la sua. Io l’ho vissuta così. D.
Alla fine della discussione di un caso, si raggiungeva un punto di vista
condiviso da tutti? R.
Si, principalmente si. A volte ci
sono delle obiezioni, ma direi che per forza di cose alla fine le
decisioni dovevano essere condivise. D.
Secondo te l’ essere portatrice di una cultura, anche linguistica,
diversa da quella italiana, ha influito sulla relazione con gli altri? R.
No, diciamo che tutti gli scambi e
confronti che ho avuto con gli altri sono stati un’esperienza. Anzi
essere di un altro Paese mi ha aiutata in alcune situazioni, in quanto ha
giustificato alcune incomprensioni. D.
Hai incontrato colleghi che hanno avuto difficoltà invece a comunicare
tra loro? R.
Nella nostra équipe no. D.
Comunicare con i tuoi colleghi ti ha aiutato a creare anche dei legami
extra-professionali. R.
Si, è questa è la parte più bella
del lavoro in questo gruppo. D.
Sempre dal punto di vista dell’interazione e della comunicazione con i
colleghi, ritieni pesante questo lavoro. R.
Questo lavoro è pesante a
prescindere. A volte ci sono state delle incomprensioni che siamo riusciti
a risolvere proprio grazie al dialogo. E già riuscire a parlare di un
problema, secondo me vuol dire molto. D.
Consideri la Supervisione un momento importante? R.
Molto importante. Anzi, la
consiglierei anche in altri tipi di lavoro. Serve
per ricaricarsi e per imparare ad abbattere le barriere della
comunicazione nel servizio. E’ l’unico spazio in cui si riescono a
dire cose che negli incontri ufficiali non si ha il tempo, ne il modo di
dire. D.
A volte l’équipe ha pagato gli “sbagli” del singolo. Secondo te si possono
evitare queste situazioni attivando dei meccanismi di passaggi di
informazione più efficaci? R.
Si, se tutto il gruppo è compatto,
secondo me impara a comunicare la stessa cosa, anche all’esterno. D.
Secondo te è più importante la relazione, la comunicazione o la
cooperazione nell’équipe? R.
E’ difficile dare un ordine a
questi elementi. Ma senza la comunicazione non c’è la relazione...e
forse neanche la cooperazione. Elisa Sartore, 28 anni. Educatrice professionale. D.
Secondo te esiste un linguaggio educativo in psichiatria? R.
Si, esiste l’educhese. D.
In cosa consiste l’educhese? R.
L’educhese è un gergo che per
abitudine si è creato tra gli educatori. Un
gergo che magari in altri servizi non viene compreso. Non è detto che sia
il modo più adeguato per comunicare, però si è creato un linguaggio
tramite il quale ci si capisce e se esci dal nostro ambiente non sempre è
generalizzabile. Non sempre è possibile esportarlo. D. Cambia secondo te il
linguaggio tra gli educatori in base alla loro diversa formazione
professionale? R.
Si, cambia il linguaggio ma perché
si pone l’attenzione su cose differenti. Un educatore/psicologo pone più
l’attenzione all’analisi introspettiva delle situazioni, mentre invece
l’educatore è più pratico, coglie alcuni atteggiamenti ed alcuni
segnali del comportamento del paziente meglio di altri. D.
Con gli altri membri dell’équipe, medico,infermieri, c’erano delle
differenze comunicative? R.
Si, nel senso che loro mettono da
parte alcuni aspetti ai quali noi educatori diamo più importanza. Loro
sono ancora più pratici, per cui prediligono un linguaggio più
specifico, più “ medico” del nostro. D.
Questo ha rappresentato un handicap nel corso della tua esperienza? R.
Non particolarmente. A volte si va
non sempre nella stessa direzione. Si
fa più difficoltà a farsi capire, c’è più dispendio di energie e si
ha la sensazione che il proprio lavoro non venga compreso dagli altri. Il
limite maggiore era forse il fatto che la parte sanitaria dell’équipe
aveva un datore di lavoro differente, che era anche il nostro committente.
Pertanto erano più liberi di esprimere considerazioni, mentre noi
facevamo più attenzione ad essere conformi al mandato dell’ASL. D.
Qual è il momento di scambio più importante secondo te, la riunione o i
momenti informali? R.
Sono importanti entrambi. La
riunione è importante per ufficializzare le informazioni di corridoio e
far venire i “nodi al pettine” ed il confronto tra le varie figure
della psichiatria permette di giungere ad una conclusione riguardo al caso
in questione. D.
Quando si affronta un caso, emerge un quadro condiviso da tutti? R.
Non sempre. In genere l’ultima
parola spetta allo psichiatra, anche se viene dato molto spazio agli altri
operatori. Qualcosa alla fine bisogna pur decidere, ed a volte si creano
delle spaccature nell’équipe. D.
L’impostazione gerarchica in psichiatria, influisce sui meccanismi di
comunicazione? R.
Sicuramente, ma non penso che sia
del tutto negativa. Dipende da chi è il superiore, che secondo me deve
essere in grado di percepire molti segnali e deve essere molto presente
nell’équipe, altrimenti non ci si capisce più. L’istituzione tende
comunque a mantenere la sua superiorità, per cui bisogna in un certo
senso rispecchiarla, altrimenti non hai più il lavoro. D.
Questo crea dei conflitti o dei legami? R.
Se gli ideali, la missione non è
condivisa dall’équipe tende a creare dei conflitti, malcontenti e
difficoltà, perché bisogna accettare un modo di lavorare non sempre
comune. A volte bisogna mettere da parte la nostra faccia, la nostra
persona e le ns idee. Bisogna mediare molto, sia comportamentalmente che
linguisticamente, bisogna selezionare le cose che si possono dire e quelle
che no, ritagliandosi degli spazi gratificanti per vendere bene il proprio
lavoro. D.
Secondo te è più importante la relazione, la comunicazione o la
cooperazione ? R.
Tutte e tre sicuramente, ma forse la
cooperazione, senza la quale non vi sarebbero le altre due. La relazione
è utile per stare bene. La comunicazione per capirsi. Manuela Plocksties 48 anni, educatrice professionale. Nazionalità
tedesca. D.
La tua esperienza nell’équipe, è iniziata a due anni della sua nascita
come gruppo di lavoro. Come hai vissuto l’impatto? R.
Diciamo che io ero titubante, ma disposta all’arrivo, perché ero stata
trasferita da un altro servizio e non avevo molta voglia di essere
trasferita. La
prima persona che ho incontrato è stata Dana, l’infermiera. Poi, pian
piano ho conosciuto il resto del gruppo, dal quale sono stata accolta
molto, molto bene devo dire. Solo alcuni hanno fatto una faccia un po’
strana... Tutti
mi hanno accompagnata nei primi approcci con gli utenti e con il servizio,
con un buon lavoro di affiancamento, perché anche se ho già una buona
esperienza nel campo, cambiare servizio ed équipe, è sempre una nuova
sfida. D. Ti sono arrivate tutte le
informazioni necessarie? R.
Si, e anche se mancava una parte della documentazione scritta, tutte le
informazioni mi sono state passate a voce da voi colleghi, e malgrado io
facessi centomila domande, nessuno mi ha mai dato risposta negativa e si
è sempre dimostrato disponibile alle spiegazioni. D.
Hai vissuto dunque un ambiente positivo? R.
Si, decisamente si. Malgrado tutte le “ energie contro” che avevo, mi
sono integrata bene. Una cosa molto bella è che non c’era nessun
prevaricamento, a parte nei momenti di tensione, e nessuna lotta di potere
all’interno del gruppo. Era un’équipe molto compatta. D.
I rapporti tra la parte educativa e quella sanitaria sono stati difficili? R.
Bè no,anzi menomale che
c’erano i due infermieri. Non ci sono state particolari difficoltà a
lavorare con loro o con il coordinatore infermiere. D.
Secondo te c’era una struttura gerarchica nella nostra équipe? R.
Certo. E il personale sanitario, per questo, aveva molta più libertà di
dire ed agire, invece noi educatori, lavorando su committenza, avevamo un
po’ paura di nuocere al nostro posto di lavoro. Insomma dovevamo essere
un po’ cauti. Alcuni membri dell’équipe sanitaria inoltre,
soprattutto la coordinatrice degli ultimi mesi, aveva dei modelli di
lavoro e di linguaggio molto “suoi” e non ne accettava altri. Ma con
il tempo si è resa conto che non era molto semplice imporsi con noi, per
cui ha ammorbidito le sue posizioni. D.
Tra noi educatori, esisteva un linguaggio condiviso? R.
Si, soprattutto nei momenti ufficiali. Nei cambi turni un po’ meno. D.
Dunque secondo te c’era un linguaggio ufficiale ed uno ufficioso? R.
Si, in pratica si. D.
E qual era la differenza tra i due? R.
Il linguaggio ufficiale era più forbito; si cercava di esprimere i
concetti in modo migliore, di riferirsi a modelli teorici. Invece
tra di noi si andava a ruota
libera. Ovviamente c’erano anche lì delle espressioni comuni, e
comunque riuscivano sempre a capirci. D.
Cambia secondo te il modo di comunicare tra gli educatori, in base alla
formazione professionale? R.
No, in base alla mia esperienza no. D.
Anche in tutta l’équipe c’era la differenza tra un linguaggio
ufficiale ed uno ufficioso? R.
Penso di si. D.
Ci sono stati momenti in cui ti sei sentita a disagio e non sei riuscita a
relazionarti con l’équipe, o il fatto di essere di altra nazionalità
ti ha mai creato problemi? R.
No, in entrambi i casi. D.
Secondo te qual è il momento di scambio più importante nell’équipe? R.
Secondo me erano i 15 minuti di cambio turno, che servivano non solo per
darci le informazioni sui pazienti, ma sull’andamento in generale della
giornata e della settimana, su come ognuno di noi si sentiva e come aveva
vissuto certe situazioni, per darci sostegno a vicenda, per sfogarsi. D.
Hai avuto modo di creare dei legami con i colleghi? R.
Si , non solo professionali ovviamente. A parte con una o due persone, con
il resto ho instaurato un bel rapporto. D.
Durante le riunioni, quando si affrontava un caso, ad esempio S.A.,
emergeva un piano d’intervento condiviso da tutti? R.
Direi di no. La parte sanitaria dell’équipe, soprattutto lo psichiatra,
aveva ovviamente una visione più clinica dei casi, mentre la parte
educativa aveva un approccio più pedagogico. D.
Questo ha creato dei conflitti? R.
Si, si creava più confusione, e questo intaccava la nostra tranquillità,
il nostro modo di lavorare, perché dentro di noi avevamo intenzione di
lavorare in un certo modo, ma non potevamo realizzarlo in tutto e per
tutto. E questo, per prima cosa dava frustrazione, e seconda cosa ci
faceva sentire voci fuori dal coro. D.
Secondo te tanti anni di esperienza insegnano a comunicare meglio nell’équipe? R.
In un certo senso si. Ma dipende molto dall’équipe, da come ti
accoglie. D.
Ci sono degli episodi di scontro che ti hanno fatto maggiormente
riflettere? R.
Si, quello con M. Ma una volta chiaritosi tendo a guardare avanti. La
persona con cui mi sono scontrata ha un vissuto professionale particolare, che spesso scaricava, come tu sai, su noi
colleghi. Lei non era secondo me capace di ascoltare l’équipe e pensava
che nessuno la capisse quando parlava. Tutto
questo secondo me non è negativo, perché aumenta invece la capacità di
comunicare. Cerchi comunque di non lasciare da solo chi ha più difficoltà
di relazione, cerchi di tenere unito il gruppo per lavorare meglio. Lo scontro molto spesso è
costruttivo nel nostro lavoro. D.
Secondo te è vero che nella nostra équipe mancava il “passaggio
dell’informazione”? R.
No. D.
Che opinione hai della nostra Supervisione d’équipe? E’ servita a
qualcosa con l’andare del tempo? R.
Io ho partecipato solo a due incontri. Non condividevo la scelta della
conduttrice, una psichiatra dello stesso dipartimento committente. Secondo
me non poteva essere obiettiva. Era comunque un modo per incontrarsi e
scambiare opinioni, soprattutto sui casi da affrontare. D.
Secondo te è più importante la relazione, la comunicazione o la
cooperazione nell’équipe? R.
La comunicazione. Se io non comunico
non riesco né a relazionarmi, né a cooperare con i colleghi. Antonella Bressa, 33 anni, psicologa. D.
Mi descrivi il tuo ruolo da psicologa nella nostra équipe? R.
Io
ho lavorato con voi per due anni, ed il mio mandato è stato quello
di costruire dei gruppi di approfondimento per il recupero delle abilità
sociali. L’intento
era quello di “costruire” con l’équipe stessa quello che sarebbe
stato il gruppo di utenti prescelto per l’attività, perché gli
operatori conoscevano meglio i pazienti della comunità. Ho collaborato si dall’inizio
sia con D., che con gli altri operatori. D.
Come sei stata accolta nell’équipe? R.
In questa comunità bene. Ho trovato
dei punti di forza, soprattutto con chi ha costruito il gruppo con me. Ma
anche tra gli operatori c’era curiosità quale fosse il mio compito e
come lo avrei realizzato. Diciamo
che non ho trovato un muro, nessuno mi ha impedito di fare cosa dovevo
fare. D. Hai
fatto parte dell’équipe anche dal punto di vista metodologico e
progettuale? R.
Rispetto
a questo ho scelto di rimanere abbastanza marginale alle dinamiche
d’équipe e di gruppo. Inizialmente il mio obiettivo era quello di fare
il mio lavoro e basta. In realtà nella pratica non è stato proprio così,
nel senso che a partire dalle situazioni conflittuali in comunità, alle
storie personali dei pazienti, mi sono sentita ,nel tempo, molto parte del
gruppo, quasi come una sorta di famiglia, di casa. Sentivo molto vicini
gli educatori e mi sono sentita un riferimento per alcuni di loro. D.
Questo ti è successo solo durante l’esperienza con noi? R.
In particolar modo si. In altre équipe
è successo in maniera differente. In generale posso dire che questa è
stata l’équipe che mi ha fatto sentire più a casa. D.
Osservando, da psicologa, le dinamiche di gruppo, secondo te, la nostra équipe,
“ funzionava” bene? R.
Credo di poter dire che, sia
caratterialmente, sia professionalmente, vedevo livelli differenti, nel
senso che vedevo persone competenti, persone in difficoltà, sia a livello
caratteriale che personale. Globalmente,
credo che ci fosse un forte equilibrio, soprattutto nel senso della
collaborazione e del “ rattoppo”, laddove le cose non funzionavano. D.
Secondo te, mancava realmente il “passaggio delle informazioni”, nel
gruppo di lavoro? R.
In un certo senso si. Ma solo perché
questa équipe è strutturata con dei ruoli ben precisi, con
un’impostazione gerarchica ben definita, dove gli educatori entrano come
collaterali rispetto ai progetti e alla decisionalità sui pazienti.
Quindi penso che il mancato passaggio delle informazioni fosse dovuto al
“dato per scontato” di una parte del gruppo. La difficoltà stava
soprattutto nel passaggio in verticale. D.
Secondo te c’era diversità di linguaggi? R.
C’era una marcata diversità di
linguaggi. Quello che sentivo più vicino al mio modo di
lavorare era sicuramente quello educativo. Il linguaggio
infermieristico è sicuramente diverso. Il mio linguaggio è
fondamentalmente quello di pensare al paziente come persona, quindi mi
interessa poco l’aspetto gestionale che può riguardare ad esempio i
farmaci. Anche gli educatori puntavano più sul rapporto interpersonale,
ricordo alcuni che passavano ore a chiacchierare con i pazienti, ed
attraverso la parola riuscivano ad ottenere dei risultati. D.
Quindi secondo te, anche se mancava l’informazione, in alcuni casi
c’era invece un eccesso di parola? R.
Si, soprattutto da parte di alcuni
operatori c’era un eccesso di parola, un fermarsi troppo davanti alla
situazioni, senza pensare al tempo. D.
Hai avuto degli scontri con membri dell’équipe? R.
Scontri no, ma forse anche perché
l’ho scelto. D’altronde il mio ruolo era anche quello di cercare di
mediare, di fare da collante. Ho
sentito però delle divergenze tra i “ modi” di lavorare, in
particolare con i vertici. Divergenze proprio sul modo di
intendere il lavoro in comunità. D.
Hai stretto dei legami affettivi? R.
Si, soprattutto in
“orizzontale”. D.
Una tua opinione sulla riunione d’équipe, la supervisione, e gli scambi
informali. R.
Io non ho mai visto una Supervisione
di questa équipe. Questo mi fa riflettere, nel senso che già
un’incontro che non tenga conto di tutte le figure professionali che
lavorano nell’équipe, ma solo degli operatori di base della comunità,
non è ben definibile. Da
quello e da come mi è stato raccontato, in questi incontri si studiavano
di più i casi da affrontare, mentre secondo me andava più affrontato il
come l’operatore viveva il rapporto con il paziente e che effetto aveva
tutto ciò sul gruppo di lavoro. Ma non avendo assistito a nessun
incontro, non posso dire per certo che non ci sia stato. Per
quanto riguarda la riunione d’équipe, tendenzialmente credo che non
venisse sfruttata al massimo dagli operatori. E’ vero che ci sono degli
aspetti gestionali pratici da affrontare, ma secondo me è necessario
parlare anche di ciò che non funziona tra di “noi”. E’ un momento
importante dove ci si dovrebbe confrontare anche sulle difficoltà, anche
caratteriali. Mentre si lascia più spazio alla parte gestionale, senza
che questo dia sollievo agli operatori. D.
Dunque secondo te c’era un velato equilibrio, che non era equilibrio? R.
Esatto. Un velato equilibrio che era
dato dall’autogestione del gruppo. La forza di questo gruppo è stata la
coesione, l’affiatamento in orizzontale ha giovato molto. D.
E gli scambi informali che ruolo hanno in tutto ciò? R.
Il passaggio di consegne è il
segnale più immediato che si ha del gruppo. Personalmente
ho sempre trovato l’”eco parlante” della situazione “strong”,
per cui mi sono trovata bene. Tra gli operatori, sia di scritto che di
parlato, ne ho sempre visto parecchio, quindi li reputo efficaci. D.
Secondo te qual è stato l’elemento costruttivo e quale quello
distruttivo di questa équipe, se ce n’è uno? R.
Il punto di forza è stato, secondo
me, il trovare delle persone che amavano il loro lavoro, per cui la
passione, il che ha permesso anche di sopportare determinate cose in
comunità. Il
punto di debolezza è stato l’arrendersi di fronte a determinate
difficoltà, il lasciar perdere. D.
Il che, secondo te. Era dovuto all’incapacità di comunicare, o
all’impossibilità? R.
Io non penso mai all’impossibilità,
credo nell’incapacità, ma non intendo incapacità individuale. Credo
che il gruppo abbia rinunciato ad ottenere delle cose, ma per
esasperazione, per cui ad un certo punto ha deciso di mollare la spugna
con i vertici, non c’erano alternative. Capisco le fatiche dell’essere
tenuti in considerazione; la comunicazione non è stata inesistente. E’
stata tentata, ma a volte, non è stata ben ascoltata. Io avrei lottato di
più, indipendentemente dal mio ruolo professionale. D.
Secondo te è più importante la relazione, la comunicazione o la
cooperazione? R.
In ordine direi cooperazione,
comunicazione, relazione, perché se non si coopera il gruppo non
funziona, con questo intendo lavorare con, lavorare insieme, lavorare per.
E poi attraverso la comunicazione che si riesce a cooperare. La relazione
la vedo importante, ma credo che non sia essenziale, a parte in questa équipe,
dove l’essere diventati amici, non solo colleghi, era palese. Il che era
una ricchezza, ma in alcuni casi, impedisce di lottare. Diciamo che la
relazione è una fortuna, se ce l’hai bene, se no pazienza. D.
Secondo te questo gruppo di lavoro, ha rispecchiato il mandato
dell’istituzione? R.
Credo di si. D.
Come hai visto l’integrazione delle varie “culture” nel gruppo? R.
Anche questa come una ricchezza. C’era solarità in questo gruppo, e
personalmente mi sono legata a questo. E non ci sono state difficoltà
d’integrazione. Sicuramente ,in alcuni casi, se non ci fossero stati
troppi linguaggi differenti, dal
punto di vista personale, ci sarebbe stata una comunicazione più
efficace. D.
C’era un capro espiatorio nel gruppo? R.
Si, ed a volte ne ho visto anche più di uno. Ma credo che sia normale,
così quando qualcosa non va, sai con chi prendertela. PierCarlo
DellaPorta , 48 anni. Medico psichiatra. D.
Come medico responsabile,la nostra
équipe, secondo te, ha funzionato bene? R.
Sicuramente si. Direi che, ovviamente, è impossibile che non ci siano
stati dei problemi di comunicazione. Ma questo credo che faccia parte
della fisiopatologia dell’organizzazione. D.
L’integrazione tra i linguaggi delle diverse professioni, è stata
difficoltosa? R.
Inizialmente, qualche problema l’ha creato,nel senso che una formazione
specifica delle varie figure professionali, può portare a degli equivoci,
si hanno dei punti di vista differenti. Lavorando invece, l’infermiere
si è capito con l’educatore, l’educatore si
è capito con il medico, e così via. Tutto ha funzionato bene. D.
Ha funzionato sia in orizzontale che in verticale? R.
Secondo me si. D.
Come hai visto le
nostre riunioni d’équipe? R.
Direi che nel tempo sono maturate. Ogni tanto ci sono state delle riunioni
un po’ più stanche. Un lavoro pesante come questo, porta momenti di stanchezza in queste, chiamiamole “ liturgie”.
Però ci sono state anche delle riunioni molto vivaci, con dei contenuti
superiori rispetto a quelle dell’inizio, che erano magari più cariche
di entusiasmo, ma anche meno ricche di contenuti. Sicuramente
era lo strumento più importante per il passaggio delle comunicazioni
ufficiali. Però,
secondo me, erano importanti anche gli scambi in ufficio o nella pausa
pranzo, che fungevano da preparatori alla riunione. D.
C’era una diversità di linguaggio tra i colleghi,nei momenti ufficiali
e in quelli ufficiosi? R.
Secondo me si, ma non tanto. E’ proprio verbale, ma non di
contenuti. Diciamo
che il momento dello scambio in ufficio ha dei contenuti più autentici,
più sottolineati dal punto di vista professionale. D.
Hai visto dei conflitti all’interno dell’équipe nel corso del tempo? R.
Si, senz’altro. Ci sono stati dei conflitti, che comunque, ribadisco,
secondo me fanno parte di una fisiologia di lavoro, un lavoro pesante, che
impegna,e che chiaramente richiede dei meccanismi vagliati nel tempo, e
tutto ciò fa scattare degli automatismi, dei momenti di discussione. D.
Secondo te, dopo il confronto, emergeva un quadro comune condiviso? R.
Senz’altro. Comunque, se in una riunione non emergeva la condivisione,
nella successiva si trovava una soluzione mediata da parte di tutti. D.
Come “padre” di questa équipe, hai visto maturare dei legami,
costruttivi o meno, nel gruppo? R.
Direi di si, sicuramente c’era un particolare feeling, anche
extraprofessionale, tra alcuni operatori, il che ha facilitato per certi
versi la comunicazione, la possibilità di chiarirsi, anche la possibilità
di discutere con atteggiamento più costruttivo. D.
E’ stato utile il confronto tra culture diverse? R.
Io ho visto la cosa molto utile, interessante, soprattutto al di fuori dei
momenti ufficiali, quando ognuno raccontava la propria cultura, il proprio
modo di vedere le cose. E questo secondo me è stato arricchente. Inizialmente,
la lontananza culturale ha creato qualche difficoltà, ma sempre in senso
positivo. Sempre meglio avere qualche difficoltà in più, cose nuove di
cui parlare, non sempre scontate. D.
Come vivevi esternamente la supervisione, visto che la tua partecipazione
non era prevista? R.
In modo favorevole. Ritengo che sia uno strumento utile in tutte le équipe,
e senza il medico responsabile, in quanto, conducendo già io le riunioni
d’équipe, posso essere, consapevolmente o inconsapevolmente,
colui che ne da un’impronta sua, che, spero, era condivisa dal gruppo
nella maggior parte dei casi, ma in altri no. La
supervisione invece è esterna a questa dinamica, e possono emergere dei
contenuti che, in altri casi, l’équipe riverbera su di me. In questo
tipo di incontro possono emergere delle riflessioni, delle considerazioni
nuove, a volte risolutive rispetto a situazioni magari statiche, sulle
quali anche io avevo delle perplessità. D.
Il fatto di essere occhio “super partes”, ti ha aiutato a mediare in
alcune situazioni, nei conflitti che si creavano nel gruppo? R.
Penso di si. Almeno io ho cercato di
fare questo, in quanto rientra nel mio ruolo specifico, mediando tra
figure professionali diverse, per unificare alla fine il lavoro di tutti.
Laddove questo non è stato possibile, ho cercato di convogliare
l’aggressività su di me, perché ritengo giusto che il gruppo scarichi
questa verso un responsabile, che magari è in grado di gestirla,
piuttosto che al suo interno. D.
Il cambio di struttura ha giovato al benessere psico- fisico dell’équipe? R.
Sono sicuro di si. Perché il lavoro
già è pesante, e se tutto questo è fatto in un ambiente sfavorevole,
accresce la fatica e la demotivazione. Invece lavorare in un ambiente più
consono, da slancio. D.
L’équipe ha rispecchiato il mandato dell’istituzione? R.
Senz’altro. Ovviamente con una modalità tutta sua. Ci sono degli
atteggiamenti professionali che rendono specifico ogni gruppo. D.
Come definiresti il nostro stile? R.
Uno stile molto adeguato, perché sicuramente molto professionale. La
caratteristica più evidente è stata la componente emotiva, empatica,
anche con i pazienti, i quali hanno manifestato l’attaccamento proprio
nel momento in cui l’équipe si è dovuta separare. D.
Ci sono state difficoltà di comunicazione tra l’équipe e l’esterno? R.
Si, ma devo dire che questo non è
stato uno specifico di questa équipe, ma un po’ di tutte quelle che
lavorano in un servizio che fa parte di un dipartimento molto vasto, dove
ci sono operatori diversi, con professionalità diverse. D.
Relazione, comunicazione o cooperazione. Qual è più importante per la
gestione del gruppo? R.
Tutti e tre sono elementi indispensabili. Però per mia formazione
personale, direi la relazione, che in fin dei conti permette la
risoluzione delle difficoltà di comunicazione, e quindi la cooperazione. Fenomeni all’interno del gruppo:tipologie
emergenti di individui e professioni, scontro tra visioni, affettività,capacità
di gestire la diversità e il conflitto, la decisionalità.
Nella vita del mio gruppo di lavoro, si “sviluppano” , come si può
evincere dalle interviste, dei fenomeni
identificativi. Per fenomeni identificativi, intendo dire che ogni personaggio, me
compresa, nonostante in questa sede sia la “marziana” approdata su un
pianeta da descrivere, incomprensibile
a prima vista ( d’altronde è così che mi sono sentita il primo giorno
in cui ho messo piede in Comunità), si è fatto portatore di un personale
modo di porsi, di pensare ed agire, che ha reso questa équipe,
“unica” nel suo essere, e che non avrebbe potuto essere altrimenti. A questi fenomeni identificativi ho dato, per chiarezza, dei nomi
esemplificativi. Ecco dunque: v
Tipologie
emergenti di individui e professioni ;
dal confronto delle personali visioni degli intervistati, affiorano
caratteristiche personali e professionali di ognuno, “tipi”
comunicativi differenti. Simpaticamente pratico-utilitaristico quella di D.I.,figura
infermieristica, che sottolinea l’ambiguità effettiva della diversità
dei ruoli nel cast, quando dice che “ nel
nostro lavoro è difficile dire dove inizio a lavorare io e dove finisce
l’altro”, mettendola in opposizione al, comunque importante ed
esclusivamente suo, compito di fare un’iniezione. Più problematico e sensibile alla costrizione esercitata
dall'istituzione sulla comunicazione, il "tipo" esemplificato di
E.S., quando sostiene che “ a
volte bisogna mettere da parte la nostra faccia, la nostra persona e le ns
idee. Bisogna mediare molto, sia comportamentalmente che linguisticamente,
bisogna selezionare le cose che si possono dire e quelle che no,
ritagliandosi degli spazi gratificanti per vendere bene il proprio
lavoro” Ancora più “ribelle”, sulla scia di E., il tipo di personaggio,
come ho detto nella presentazione, poliedrico, che emerge dalle parole di
M.P.,la quale sostiene che “non
era semplice imporsi con noi!” in virtù del suo modo di sentirsi
parte del gruppo di lavoro. Molto profonda, ma anche con il dovuto distacco, da brava psicologa, la
lettura comunicativo- esistenziale data da A.B.,che non perde occasione
per sottolineare la tipologia fortemente emotiva di questo gruppo “persone
che amano il loro lavoro, che hanno la passione.....c’era solarità in
questo gruppo”, messa di fronte alla rigidità istituzionale, da lei
stessa percepita “... Credo che il gruppo abbia rinunciato ad ottenere delle cose, ma per
esasperazione, per cui ad un certo punto ha deciso di mollare la spugna
con i vertici, non c’erano alternative” A prescindere comunque da questi diversi modi di porsi che si sono
incrociati nell’équipe, ho potuto accertare, e si può ben evincere
anche questo, dai singoli interventi, che tutte queste personalità e
professionalità altre, hanno fatto sì che questa èquipe stessa si
configurasse come un gruppo unico nel suo “tipo”, e non voglio
porgervi questo concetto con
arroganza o presunzione, ma difatti ogni gruppo,anche dal confronto con
esperienze parallele alla nostra, alla
fine si differenzia dagli altri per il suo modo di essere e di lavorare,
di comunicare e di cooperare. Lo stesso PCDP, che nella fattispecie conclude alla grande la serie
delle interviste, risaltando sia nei toni che nei contenuti per la sua
“clinicità” ,in termini di lettura del gruppo, sottolinea come “Ci
sono degli atteggiamenti professionali che rendono specifico ogni gruppo.” Ed è la tipologia linguistica e caratteriale di ogni personaggio, che
come avrete percepito, è palese, che costruisce questa unicità. v
Scontro
tra visioni:
da una prima lettura delle interviste presentate salterà subito
all’occhio che le visioni, sul modo di lavorare, di interagire,
e le opinioni sui concetti esposti, differiscono. Conseguenza
naturale, direi, del fatto che varia la tipologia dei personaggi, ma non
solo. Ad esempio alla richiesta di un parere sulla Supervisione
d’équipe , mentre D.I. afferma
“...la consiglierei anche in altri tipi di lavoro.... Serve per
ricaricarsi.... E’ l’unico spazio in cui si riescono a dire cose che
negli incontri ufficiali non si ha il tempo, ne il modo di dire”, M.P.
contrappone a queste affermazioni, la sua tesi venata di scetticismo “Non
condividevo la scelta della conduttrice.... Secondo me non poteva essere
obiettiva. Era comunque un modo per incontrarsi e scambiare opinioni...” In questo caso, tra D. e M. c’è uno scontro ideologico di fondo, ma
la difficoltà di interpretazione sorge quando D., a domanda diretta, non
riscontra, nessuno, o quasi nessuno, elemento di scontro
“paranormale”, nel gruppo di lavoro, mentre dalle parole di M., si
evince chiaro il disagio nel non poter esprimere le sue “energie
contro” ,ed individua già un elemento disturbante alla tranquillità
dell’équipe. Emerge, abbastanza chiaramente direi, anche che,
l’atteggiamento della parte sanitaria dell’équipe, D.I. e
PC.DP, si presenta più “diplomatico”, il tono
delle loro parole è molto levigato “...tutto
fa parte della fisiopatologia dell’organizzazione...”, mentre
dalla parte opposta, quella educativa- psicologica, il tono diventa più
spigoloso , “La difficoltà stava
soprattutto nel passaggio in verticale” afferma A.B., puntando il
dito, come le colleghe educatrici, verso l’impostazione gerarchica. Lo scontro tra visioni,
quello esemplificato tra tanti, non era comunque fattore destabilizzante,
anzi. Sempre giovandomi delle parole di M. “Lo scontro molto spesso è costruttivo nel nostro lavoro...
perché aumenta la capacità di comunicare”, soprattutto quando, come
nel nostro caso, si manifestava la propria opinione, senza imporla, ma
porgendola. v
Affettività:
Teoricamente ogni gruppo tende ad oscillare alla ricerca di un proprio
equilibrio tra due poli, che si possono definire come efficienza/affettività. In questa sede non intendo valutare l’operato dell’équipe in
termini di efficienza, ma punterei invece a sottolineare l’importanza
dei legami interpersonali che si sono instaurati, soprattutto tra una
parte dei personaggi. Con il termine affettività
intendo il livello d’esistenza espresso dai sentimenti, dalle credenze,
dai valori vissuti, che determinano dei comportamenti. Dall’analisi stessa delle parole degli operatori, emerge, in tutti i
casi, la presenza di una componente affettiva che alla fine tiene unito il
gruppo di lavoro. Addirittura D. definisce questa componente come “la parte più bella del nostro lavoro”!, e M.,che si è aggregata
all’équipe solo nell’ultimo anno, percepisce “.... non c’era nessun prevaricamento, a parte nei momenti di tensione,
e nessuna lotta di potere all’interno del gruppo. Era un’équipe molto
compatta.” Difatto, il “trauma” del
distacco, che personalmente ancora è scottante, è la risposta a questo
legame a doppio-senso, umano e professionale, che ci legava come gruppo. Ritengo calzante su misura anche l’interpretazione di PC.DP “...la
caratteristica più specifica è stata la componente emotiva...”. Naturalmente non era tutto rose e fiori, la stessa M., parla di “ uno
o due elementi” che vivevano la situazione come un normale ambiente
di lavoro. La cosa che mi sento di affermare è comunque che, anche se i legami
affettivi si instaurano in qualsiasi posto di lavoro, quando si lavora a
contatto con un’utenza problematica, come quella psichiatrica, ognuno di
noi, sente necessariamente il bisogno di creare un’alleanza “altra”
con il collega, perché funga da supporto nei momenti di crisi. Il risvolto della medaglia di questa condivisione affettiva generale è
il saper dare la giusta attenzione alle relazioni ed al clima
emotivo-affettivo del gruppo, perché può essere molto dannoso il
cristallizzarsi delle tensioni verso quest’unica dimensione. A.B. in proposito si esprime cosi:“...
l’essere diventati amici, non solo colleghi, era palese. Il che era una
ricchezza, ma in alcuni casi, impedisce di lottare.” La buona relazione ha fatto, secondo me, in questo caso, un servizio
migliore; ed un buon servizio
permette l’aumentare della stima di gruppo e dei singoli, quindi uno
spazio di crescita positiva, che può dare esiti positivi anche
sull’utenza. v
Capacità
di gestire la diversità ed il conflitto: la capacità di integrare la diversità ed il conflitto, è uno degli
elementi che costituiscono il fondamento dell’interazione e del lavoro
d’équipe. La diversità, prima descritta quando ripropongo le diverse visioni
inerenti il modo di intendere e percepire il lavoro o le situazioni, è
infatti, direi quasi automaticamente, madre di conflitto. Di scontri che mi hanno vista protagonista, ho già descritto la
dinamica, mentre dalle parole delle degli intervistati emerge altresì
anche il diverso vissuto da parte di ognuno. D., ad esempio, alla domanda sull’esistenza di scontri nel gruppo,
afferma “...Non li definirei
proprio scontri. C’era chi aveva una filosofia di lavoro un po’ più
rigida rispetto ad altri....”e addirittura parla di “un
paesino piccolo e democratico, dove ognuno poteva dire la sua” pur
se consapevole del fatto che “...il
tutto secondo me è molto soggettivo. Dipende da come sei tu, da
come ti senti in alcuni momenti, a volte ci sono anche delle interferenze
personali che caratterizzano l’interazione con i colleghi.” Questo in contrasto con quanto dicono sia E., “... bisogna accettare un modo di lavorare non sempre comune. A volte
bisogna mettere da parte la nostra faccia, la nostra persona e le ns idee.
Bisogna mediare molto....”, che M., “...si
creava confusione, e questo
intaccava la nostra tranquillità, il nostro modo di lavorare, perché
dentro di noi avevamo intenzione di lavorare in un certo modo, ma non
potevamo realizzarlo in tutto e per tutto. E questo, per prima cosa dava
frustrazione, e seconda cosa ci faceva sentire voci fuori dal coro...”. Insomma, mentre D.,sentiva una realtà meno conflittuale, le altre due
percepiscono un conflitto più esplicito, verbalizzandolo. La diversità di visuale emerge anche dal confronto tra la posizione
della psicologa e quella dello psichiatra,in quanto la prima descrive uno
spaccato di interventi decisamente non sereno, “...Ho sentito però delle divergenze tra i “ modi” di lavorare, in
particolare con i vertici. Divergenze proprio sul modo di
intendere il lavoro in comunità...” mentre il secondo
sostiene “...ci sono stati dei
conflitti, ma che, ribadisco, secondo me facevano proprio parte della
fisiologia del lavoro...” Questo a conferma del fatto che, in
effetti ,esistono molte visioni diverse delle realtà, alcune
contraddittorie, ma tutte risultanti dalla comunicazione, e non riflessi
di verità oggettive, eterne. E tutto ciò, non è mai stato vissuto come un ostacolo, ma come una
ricchezza. Io educatore/educatrice, lo
psichiatra, lo psicologo, l’infermiere,
abbiamo bagagli culturali “diversi”,e questo è appurato, che
però in questo caso convergevano, ragionando ed operando in termini di integrazione
, piuttosto che di separazione. Non è dunque
necessario essere d’accordo all’unanimità sugli aspetti
fondamentali dei progetti ( obiettivi, metodi e contenuti), per mostrare
quanto siamo bravi. Questa convinzione portebbe a
negare le conflittualità presenti nell’équipe. Riprendendo concetti teorici, a proposito della gestione dei conflitti,
a volte il gruppo-équipe, di fronte alle difficoltà, si muove con una
modalità contorta, agendo con aggressività o mettendo in atto
comunicazioni distruttive (squalifica, disaccordo costante, soprattutto su
cose insignificanti), senza mai mettere in discussione i temi che al
conflitto soggiacciono ( e così si svela il mistero di un altro rito di
équipe, la supervisione). I sentimenti di
frustrazione ed insoddisfazione ( è difficile definire se questi siano
generati dalla situazione conflittuale o se siano essi stessi a generare
in maniera indiretta, la situazione di conflitto ), vengono in qualche
modo nascosti o compensati. Il conflitto latente o manifesto di un gruppo, però è
in parte l’espressione dei conflitti interni a ciascun membro che
trovano una possibilità di collocazione nel gruppo stesso. Per quanto riguarda invece
le diversità linguistica, sia D.,che M.,confermano che questa non ha mai
rappresentato un problema all’interazione con i colleghi. Da quanto detto, lungi da me l’idea di far apparire questo gruppo come
un “tutto” perfettamente
integrato, sinonimo di modello ingegneristico. L’équipe è stata un “tutto”
come mandato istituzionale, ma nel suo porsi era costituita da parti
totalmente diverse, dove ognuno si sentiva in dovere di dire la sua. E’ fondamentale tuttavia,per la sana evoluzione di un conflitto, che
siano chiari gli elementi che lo determinano. C’è da sottolineare inoltre, come le resistenze ad esplicitare il
conflitto possano essere correlate alla “resistenza
al cambiamento”, in quanto ogni possibile movimento reale del
gruppo, comporta la ridefinizione di nuovi equilibri, e mette in moto
processi di cambiamento, sia del singolo, sia dell’équipe nel suo
complesso. Mi vengono in mente in proposito le parole in un collega neo-educatore,
A.C., il quale,lasciando un servizio e di conseguenza un’équipe, per
affrontare una nuova esperienza, sostiene che un servizio che per anni
mantiene immutate una serie di componenti, tra cui il personale stesso,
diviene come un “feudo”, nel quale difficilmente le cose potranno
cambiare, se non come conseguenza del cambiamento delle figure, che temono
le rivoluzioni, come possibile causa della perdita della loro influenza
decisionale. Anche se ciò non rispecchia la realtà della mia équipe, come
sottolinea anche M. affermando “...sono
stata accolta molto, molto bene!”, a dimostrazione del fatto che
era, secondo me, un’équipe “aperta”. v
La
decisionalità:
tendenzialmente il gruppo-équipe, così come i singoli individui, tende a
dare per definitive ed acquisite più decisioni possibili. Soprattutto in un sistema gerarchico, come solitamente ci si trova
nell’ambito ospedaliero, e come ci si ritrovava in quest’équipe,
sottolineato anche da ogni intervistato,si aderisce facilmente alla voce
dall’alto, e si agisce di conseguenza, dando per scontato che sia ormai
una decisione a tutti gli effetti. Si sviluppa anche spesso un modo informale di prendere le decisioni, il
che comporta l’ impossibilità di definire le scelte prese ed a
modificarle se inadatte rispetto alla nuova situazione che si crea. In merito a ciò, la situazione osservata nell’équipe in questione,
era abbastanza ambigua, in quanto, mentre sia dalle parole “educative”
che da quelle della psicologa si evince l’incapacità/impossibilità di
prendere attivamente parte alle decisioni “importanti”, per la figura
infermieristica e per quella medica, non c’è questo grande gradino di
separazione. Se da una parte si afferma “...
In genere l’ultima parola spetta allo psichiatra, anche se viene dato
molto spazio agli altri operatori. Qualcosa alla fine bisogna pur
decidere, ed a volte si creano delle spaccature nell’équipe...”ed
ancora, “ ...anche se avevamo
intenzione di lavorare in un certo modo, non potevamo realizzarlo...non
era nostra l’ultima parola”,dall’altra si ribatte“...Non ci sono troppe paure a dire cosa si pensa...”, oppure, “...si
trovava una soluzione mediata da parte di tutti...”. Tutto sommato questo fa anche parte della tendenza ,direi intrinseca,
che aveva questo gruppo, a contrapporre il gusto della diversità dei
ruoli nel processo decisionale. Suggerimenti teorici, in merito a questo fenomeno di gruppo,vengono
dalle diverse voci che lo identificano come risultante di una serie di
componenti, quali tensione al
conformismo, dipendenza dall’autorità formale,difficoltà di porsi
obiettivi,incapacità di costruirsi alternative possibili, tutte
giustificazioni che potrebbero essere più o meno fondate e che facilitano
il processo decisionale. Concluderei l’analisi dei fenomeni “ comunicativi” individuati nel
gruppo analizzato, e sempre in riferimento allo status decisionale,
ribadendo che spesso, soprattutto quando si parte professionalmente
svantaggiati dal punto di vista del riconoscimento da parte di alcune
categorie, alcuni operatori hanno paura di esporsi alla volontà contraria
degli altri. E’ naturale che il medico responsabile abbia il ruolo di “dominus”
al momento dell’individuazione delle soluzioni, ma dipende molto anche
dal tipo di “potere” che
questi sa esercitare sull’intero gruppo, e letto tra le righe della sua
intervista, credo che si evinca la sua pregnante capacità dialettica nel
definire i ruoli e le priorità. Il momento della decisione è sempre e comunque un punto critico nella
vita dell’équipe, in quanto sancisce un passaggio dalla sfera
dell’affettività a quella dell’efficienza,facendo un passo indietro,
e diventa l’occasione per manifestare i disagi interni, sia al gruppo,
sia al singolo;è un momento in cui entrano in gioco, ed in modo molto
intenso, le resistenze, le paure, le difese, e temi come la diversità, il
cambiamento, il futuro, l’autorità e l’aggressività. E soprattutto per la figura
educativa, che vive un sentimento di profonda frustrazione, in quanto
figura professionale che rischia continuamente l’abuso, capro espiatorio
del fallimento dell’intervento terapeutico, per esplicitare quanto, in
modo molto diplomatico, hanno sostenuto le colleghe precedentemente. |