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INDICE CAPITOLO II

Cos’è una micro-comunità?... 27

...e “l’équipe”?. 29

L’équipe in psichiatria. Cenni di legislazione socio-sanitaria. 32

Profilo e ruolo istituzionale dell’educatore in équipe. 43

Organizzazione del lavoro e dell’équipe in comunità. 55

 

 

CAPITOLO II

L’équipe come micro- comunità.

 

 

Cos’è una micro-comunità?...

 

Le micro-comunità o i micro-contesti della vita quotidiana sono diversi, come diversi sono gli attori sociali che si trovano a comunicare ed interagire gli uni in presenza degli altri.

Individui appartenenti allo stesso contesto possono essere accomunati da tradizioni,lingua, cultura, origine, ma ancor più dalla consapevolezza di appartenere ad un’unità indipendentemente dalla realizzazione in un’unità politica. Essi condividono un insieme di valori e norme con cui si governano.

Tutti  questi gruppi si fanno portatori di una sub-cultura caratterizzante e  di un’agire quotidiano dei quali gli etnografi esaminano caratteristiche sociologiche attraverso l’esperienza diretta del rituale collettivo.

L’obiettivo degli studi sulle micro-comunità è quello di valorizzarne i tratti identificanti; si realizza un rovesciamento dell’indagine storica, nel senso che non sono più i dominanti a studiare i dominati, ma è uno studio in immersione, dallo stesso status di dominato.

Ciò permette di individuare le peculiarità culturali e costitutive del gruppo che spesso i membri stessi, spinti dal bisogno di salvaguardia delle loro identità, rimarcano fino ad ingigantire le differenze, anziché le somiglianze.

Un gruppo sociale, difatti, si individua grazie ad un continuo processo di “definizione dei confini” tra i quali spicca per sostanzialità il back-ground  linguistico  e comunicativo.

I canoni linguistici ed il modo di comunicare con l’esterno, risultano un elemento  particolarmente adatto a sottolineare l’identità di un organismo sociale.


...e “l’équipe”?

 

Quando si parla di équipe si fa riferimento ad un insieme di persone, con lo stesso o con diverso identikit professionale, che condividono la stessa dimensione di lavoro .

 In  questo senso si può affermare che l’équipe, in quanto tale, sia essa stabile o provvisoria, si configura come un sistema cooperativo in cui si individuano e circoscrivono i principi del “fare insieme“ che regolano l’articolazione delle diverse prospettive intorno ad un interesse comune.

L’équipe si consolida nel tempo e può anche essere soggetta a dei mutamenti, ma l’interesse comune rimane pur sempre lo stesso; per questo motivo le dinamiche relazionali e i modi di comunicare che si incontrano/scontrano rendono questo gruppo unico nelle sue peculiarità , in cui ciascun attore possiede un’autonomia parziale da mettere al servizio dell’insieme per rendere efficiente l’organizzazione.

Il mantenimento della stabilità dell’équipe richiede un solido lavoro di articolazione, lavoro che ha delle debolezze nel momento in cui si presentano dei rischi o degli incidenti  nella routine quotidiana.

L’ancora di salvezza in questo senso è un efficiente utilizzo dei vari canali di comunicazione.

L’équipe, come già accennato, può essere formata da varie figure professionali, ognuna delle quali porta con  sè dei canoni linguistici tipici del proprio ambito (ad  es. l’educatore adopera il cosiddetto educhese ecc.). Perciò il processo di coordinazione/comunicazione è difficile da attuare.

Le interazioni nello spazio e nel tempo sono diverse: ci si deve adattare alle scissioni spaziali, alla quantità e qualità dei legami immediati e calcolare gli effetti indiretti.

Si possono incontrare persone diverse con storie diverse e professionalità specifiche,che si trovano a gestire insieme obiettivi e strumenti di lavoro:  il fattore di successo in questi casi è una buona sinergia di gruppo, risorsa indispensabile per guardare  all’utenza nella sua globalità e per rispondere in maniera adeguata ai suoi bisogni.

Pertanto l’osservazione mirata, “partecipante“, offertaci dall’etnometodologia,  mi sembra uno strumento indispensabile per lo scopo analitico di questo lavoro, che prende in esame l’équipe come micro- contesto, per sottolinearne la prassi comunicativa e relazionale,e definirne i criteri normativi che nascono al suo interno.

Per testare meglio e circoscrivere le condizioni dell’efficacia collettiva  è fondamentale lo studio della comunicazione nel lavoro, parte importante ma spesso dimenticata, e fattore decisivo nella coordinazione di un’équipe.


L’équipe in psichiatria. Cenni di legislazione socio-sanitaria

 

 

Nel caso da me preso in esame si fa riferimento ad un’équipe di tipo multidisciplinare che opera appunto per la riabilitazione di soggetti psichiatrici.

Ma facciamo un passo  indietro per capire come  si è arrivati  alla deistituzionalizzazione ed alla chiusura dell’ospedale psichiatrico, e quindi alla costruzione di una rete di servizi  nella comunità, capaci di farsi carico della domanda di salute mentale proveniente dal territorio e di promuovere percorsi individuali o collettivi di salute e di emancipazione sociale.

Il processo di riforma nell’assistenza psichiatrica pubblica avvenuto in Italia negli ultimi 30 anni ha determinato il passaggio da una psichiatria basilare,fondata sull’esclusione e l’internamento,ad una pratica di lavoro di salute mentale nella comunità, fondata sull’inclusione, la restituzione e la costruzione di diritti per le persone affette da disturbo mentale.

Alla fine degli anni ’70 si notano dei  fermenti sociali e culturali che trovano all’interno della società italiana terreno fertile per produrre cambiamenti nel modo di pensare, progettare ed operare.

Per le politiche sociali , la legge 833 del 1978 che istituisce il servizio sanitario nazionale, rappresenta una rivoluzione culturale e organizzativa, poiché istituisce e territorializza una serie di servizi.

Servizi non solo per le cure, ma anche per la prevenzione di situazioni potenzialmente dannose al benessere psico-fisico dei cittadini.

Le province ed i comuni attivano uffici ed assessorati ai servizi sociali.

Nel 1978 , viene varata la riforma psichiatrica, legge 180, conosciuta come “ legge Basaglia “ dal nome del suo promotore, riassorbita dalla stessa legge 833.

Detta legge dispone il blocco dei ricoveri coatti in manicomio e la volontarietà delle cure psichiatriche: questo presuppone che un consistente numero di persone, affetto da handicap da insufficienza mentale o con difficoltà di relazione, ma esente da disturbi psichiatrici gravi, torni in famiglia e venga affidato ai nuovi servizi territoriali. L’assistenza  psichiatrica vera e propria sarà strutturata invece in ambito territoriale e consisterà in attività di cura e di prevenzione.

Viene meno, dunque, il concetto di custodia del malato di mente; il trattamento dell’utenza deve svolgersi nel contesto e nel tessuto sociale ove vive il portatore del disturbo mentale.

La legge 180, insomma, ha determinato una sorta di rivoluzione copernicana nelle psichiatria italiana.

Il ruolo dell’ospedale nella cura dei disturbi mentali risulta molto ridimensionato: diventa luogo di cura transitorio, per gli stati acuti, ed opera in stretto collegamento con le strutture territoriali. Chiusi  gli ospedali psichiatrici o manicomi, si aprono le “porte della vita”.

Le conseguenze di tutto ciò sono ovvie: partito del sì, partito del no.

Resta il fatto che la legislazione italiana sul tema è la più innovativa in Europa. Basti guardare  a Francia, Inghilterra o Austria, dove tutt’oggi l’ospedale psichiatrico è istituzionalizzato.

Tuttavia, prima del ribaltamento definitivo del  “sistema “passano alcuni anni e finalmente il Progetto Obiettivo tutela della Salute Mentale 1994-1996 stabilisce con precisi parametri l’adeguamento dell’assistenza psichiatrica alla legge 833.

Il progetto obiettivo indica per ogni azienda sanitaria locale la necessità di organizzare un Dipartimento di salute Mentale (DSM) come centro di tutta l’assistenza psichiatrica del territorio. Il DSM può a sua volta articolarsi in una o due unità modulari. All’interno del modulo si individuano le seguenti strutture territoriali.:

·        Centro di Salute Mentale o Ambulatorio Psichiatrico territoriale, che si occupa dell’assistenza, anche a domicilio, della prevenzione e  della riabilitazione ;

·        Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura ( SPDC ), cioè il reparto psichiatrico;

·        Strutture semi-residenziali, strutture per programmi terapeutici e riabilitativi a breve e medio termine (day hospital) o per programmi a lungo termine nei malati cronici (centro diurno);

·        Strutture residenziali per periodi medio-lunghi di trattamento riabilitativo con necessità di supporto per la vita quotidiana (comunità di tipo A, B  e C).

Con la nuova legislazione in materia di autonomie regionali questa organizzazione è stata attuata con tempi e modalità diverse.

Il Piemonte si è portato in ciò abbastanza avanti rispetto ad altre regioni, il che ha dato anche la possibilità di ampliare il cerchio d’impiego delle figure professionali socio-sanitarie emergenti e corrispondenti a dei ruoli in passato confusi o poco considerati.

In questo contesto di generale caos organizzativo, sono state messe in discussione dagli stessi legislatori  le gerarchie, mutate le relazioni tra gli operatori e i pazienti, inventate nuove relazioni, spazi, opportunità, restituita la  “libertà” e diritti ai ricoverati e alle ricoverate.

Dal 1975 al 1980, mentre nell’ospedale psichiatrico continua il lavoro di trasformazione e di dimissioni dei pazienti, si evidenzia,da parte degli operatori, la necessità di "superare i muri" e di "accompagnare" il lungodegente nel territorio per supportarlo nei suoi bisogni, per favorire il suo accesso nella città, nelle reti familiari e sociali, nelle istituzioni, ma anche di rispondere alla sofferenza-malattia dei cittadini nella comunità, dove questa si costruisce e si esprime.

Gli operatori in questione sono quelli che affiancheranno il medico psichiatra e l’infermiere/guardiano, deistituzionalizzati anche loro, nel cammino sul territorio: tutte quelle figure, che fanno oggi parte delle équipe dei servizi e che hanno finalmente, o quasi, visto riconosciuta la loro valenza professionale.

L'oggetto del lavoro degli operatori della salute mentale è divenuto non più la malattia, ma l'esistenza sofferente del soggetto inserito nel suo contesto sociale.

 La pericolosità sociale non è più presuntivamente legata alla malattia, ma tanto più all’assenza di risposte dai servizi ed ai contesti.

Nella pratica di salute mentale sempre più si è valorizzata la diversità, si sono promosse le connessioni e gli scambi, le strategie di impresa sociale.

In un servizio siffatto, oltre alla difficoltà di relazione con il paziente, è fondamentale l’efficienza del lavoro d’équipe;si possono creare infatti delle dinamiche conflittuali tra gli operatori di diversa professionalità (medici psicologi, assistenti sociali ed educatori) , non avendo nessuno di loro ricevuto un’adeguata preparazione durante il loro percorso formativo, per quel che concerne il lavoro di gruppo.

Diventa quindi necessario lavorare nel rispetto delle diverse professionalità, in quanto ogni operatore, dando il suo specifico contributo, collaborerà alla individuazione di un progetto d’intervento per ciascun utente.

Così sarà tutta l’équipe ad avere in carico l’utente, e non un singolo operatore con “delirio d’onnipotenza”.

E’ inoltre importante che tutti gli operatori impegnati nel medesimo caso, diano un messaggio comune all’utente, affinchè questi non cerchi di creare delle alleanze al fine di separare e mettere in crisi gli stessi operatori, cosa che, parlando per diretta esperienza, accade frequentemente.

 

 

Per lavorare nel miglior modo possibile in équipe è dunque necessario:

 

Definire le responsabilità,i ruoli e gli incarichi pratici;

Essere solidali e coerenti e affiatati;

Il rispetto, la stima e la condivisione degli obiettivi.

 

In sintesi, all’équipe, in special modo quella di comunità, spetta l’assensement clinico e psico-sociale, l’individuazione dei problemi, la valorizzazione delle risorse soggettive, la formulazione di un progetto (PEI, PAI ecc.) mirato alla riabilitazione o abilitazione nelle aree di disabilità ed il monitoraggio periodico del lavoro svolto e degli obiettivi raggiunti.

Ciò è reso possibile dalla validità della rete di scambi d’informazione normata all’interno dell’équipe che, nell’arco della giornata e nel tempo, programma momenti di confronto, riunioni, supervisioni ma anche semplici

“ passaggi di consegne” , che rendono la comunità non solo luogo di vita per gli utenti, ma uno spazio nel quale si può parlare, confrontarsi, anche scontrarsi, attaccarsi, ma senza il rischio di distruggersi.


Figure professionali  di un équipe di recupero psichiatrico in comunità di tipo B.

 

L’équipe multidisciplinare di una comunità di recupero psichiatrico vede interagire una serie di figure professionali, direi quasi di personaggi.

Subito dopo la deospedalizzazione  e il conseguente mettere in atto dei servizi comunitari, le solide gerarchie  della psichiatria tradizionale entrano in crisi e sono praticamente obbligate a ridefinirsi.

Gli psichiatri, giovani e meno giovani, che aderiscono all'intenso lavoro di messa in discussione teorico-pratica dell'istituzione manicomiale, sono tuttavia parecchi. Ognuno di loro comincia ad essere dislocato sul territorio, nei vari ambulatori, nei day- hospital, nelle comunità.

In quest’ultime diviene “medico referente di comunità “, figura che è posta al vertice della nuova gerarchia, seppur meno rigida, che si viene formando, e che, nonostante l’attuazione delle norme legislative muti di regione in regione e anche all’interno delle stesse Aziende Sanitarie Locali di una città, è sempre il cardine dell’équipe di recupero, colui che insomma definisce il taglio dell’intervento sul paziente e lo trasmette al resto del gruppo.

Prendendo in esame la realtà piemontese allo stato attuale, altro membro  dell’équipe è l’infermiere: il processo di trasformazione istituzionale qui accennato, ha visto molteplici conflitti, proprio all'interno  del gruppo infermieri, i quali, sostenuti dai sindacati, non si sentivano tutelati nel loro posto di lavoro e facevano fatica ad abbandonare il tradizionale ruolo di guardiani, per assumere/esprimere capacità terapeutiche.

Attraverso un’appropriata campagna di formazione, organizzata da ogni singola ASL, ed anche in seguito ai nuovi ordinamenti universitari per la professione infermieristica, tuttavia, molti arroccamenti sono stati superati.

Anzi il nuovo status dell’infermiere psichiatrico  piace, e permette a queste figure di acquistare prestigio ed avere un ruolo fondamentale nel setting terapeutico riabilitativo .

 Partendo dal presupposto basilare di intendere l’assistenza infermieristica come un processo dinamico, terapeutico ed educativo che prende in considerazione i bisogni sanitari della società, è possibile affermare che la funzione dell’assistenza infermieristica in comunità è  ora quella di aiutare, attraverso azioni/prestazioni terapeutiche ed educative, l’individuo e la famiglia ad utilizzare le proprie risorse e potenzialità per gestire autonomamente e nel modo più appropriato, la propria salute e la condizione di malattia o disabilità.

 L’infermiere  deve costituire l’anello di congiunzione con altri modelli e teorie di altri professionisti, e quanto più questi  incorpora al proprio bagaglio culturale, modelli concettuali, teorie infermieristiche, teorie di altri campi disciplinari, teorie comportamentali ed altro ancora, tanto più sarà in grado di svolgere il proprio ruolo di professionista in modo competente e producendo risultati di salute.

Non più erogatore di rigide e protocollari prestazioni l’infermiere diviene complice, amico,consigliere, ma anche colui che ricorda fatalmente la malattia ad ogni incontro, mediatore tra la persona sofferente e la sua difficoltà di stare al mondo, e del mondo a stare con lei.

 Il lavoro infermieristico in psichiatria impone dunque un ruolo, sia di tipo assistenziale-sanitario, sia di tipo relazionale-psicologico.

Tra di loro viene identificato, come nell’équipe di reparto, un referente/coordinatore, che si occupa sia dell’organizzazione quotidiana nel servizio, che di tutte le questioni burocratiche amministrative.

Al  fianco dello psichiatra e dell’infermiere ecco l’educatore , di cui tratterò nel prossimo paragrafo le specifiche competenze e l’importanza della sua figura per il reinserimento sociale dell’utenza presa in carico.

Parte integrante dell’équipe è anche la figura dello psicologo, generalmente con esperienza analitica,  che pur non vivendo costantemente l’atmosfera del servizio, segue i pazienti durante l’intero percorso riabilitativo, facendo da tramite nel rapporto con lo psichiatra.

Con questa parte cardine dell’équipe, collabora inoltre tutta una serie di altre figure di scambio quali assistente sociale, tecnici della riabilitazione, animatori, tecnici di laboratorio multiplo ( musico-terapista, danza-terapista, ecc ), che di per sé fanno parte di altre équipe ben definite nel loro interno, ma che partecipano indirettamente al progetto riabilitativo individuale di ogni utente preso in carico.


Profilo e ruolo istituzionale dell’educatore in équipe.

 

Come  precedentemente accennato, l’educatore in un équipe di recupero psichiatrico è una figura indispensabile per la presa in carico del paziente e per il suo reinserimento sociale.

In seguito alla separazione dei servizi sanitari , compaiono negli stessi servizi nuovi modelli di interpretazione e di azione: la psicologia di comunità, l’approccio ai sistemi relazionali, l’intervento di rete.

Questo passaggio evidenzia  il bisogno di una figura professionale in grado di produrre, attraverso l’instaurarsi di nuove reti  relazionali e di nuove esperienze , dei cambiamenti nelle persone coinvolte, sia in ordine alle rappresentazioni personali, sia a quelle sociali, permettendo ai soggetti di uscire dai cliché sociali predefiniti ed affrontare la vita sociale con nuove competenze ed una maggiore forza sul piano dello scambio negoziale.

Il profilo professionale della figura in questione coincide con quello dell’educatore.

In ambito sanitario l’educatore è impiegato  non solo nel settore della psichiatria, ma anche in quello dell’handicap, della dipendenza da sostanze e disturbi derivati, quindi nei vari servizi a questi collegati.

In ambito sociale invece l’educatore si colloca oltre che nel settore dell’handicap, anche in quello dei minori con disagio, dell’integrazione multiculturale, dell’educazione degli adulti. Concorre alla formazione  del personale, al tutoraggio ed alla supervisione dei tirocinanti nelle strutture.

Nel 1984  si riscontra il primo riconoscimento giuridico formale della professione di educatore, il Decreto Degan, poi annullato, che mirava all’identificazione di figure professionali atipiche e di dubbia ascrizione  nell’ambito del personale delle unità sanitarie locali.

Il decreto così definiva il profilo dell’educatore: “ l’educatore professionale cura il recupero ed il reinserimento di soggetti portatori di menomazioni fisiche e psichiche”.

Nel 1990 viene definita la figura di “ educatore professionale e di comunità” , che opera accanto alle figura del medico, dell’infermiere, dello psicologo e dell’assistente sociale nella realizzazione del progetto operativo individuale dell’utenza.

Nel tentativo di riempire il vuoto legislativo di definizione delle figure professionali incerte, sono state presentate dopo il decreto Degan, una serie di proposte di legge, tra le quali la proposta Battaglia,che ipotizza “ norme per l’esercizio della professione di educatore e l’istituzione dell’albo professionale” e che decade alla fine della XI° legislatura.

Nel 1998, con il decreto del ministero della sanità n° 520, è stato riconosciuto a livello nazionale e solo per l’ambito sanitario pubblico, il profilo dell’educatore professionale.

Altri decreti , antecedenti e successivi a questo, definiscono il profilo di questa figura in tal modo:

 

I.                   “ l’educatore professionale è l’operatore sanitario e sociale che, in possesso del titolo universitario abilitante, attua progetti educativi e riabilitativi, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un équipe multidisciplinare, volti ad uno sviluppo equilibrato della personalità con obiettivi educativo- relazionali in un contesto di partecipazione alla vita quotidiana. Cura il positivo inserimento o reinserimento psico- sociale dei soggetti in difficoltà”.

 

II.                L’E.P.

a)     programma , gestisce e verifica interventi educativi mirati al recupero ed allo sviluppo delle potenzialità dei soggetti in difficoltà, per il raggiungimento di livelli sempre più avanzati di autonomia;

b)    contribuisce a promuovere ed organizzare strutture e risorse sociali sanitarie, al fine di realizzare il progetto educativo integrato;

c)    programma, organizza, gestisce e verifica le proprie attività professionali all’interno dei servizi socio- sanitari e strutture socio- sanitarie riabilitative e socio educative, in modo coordinato ed integrato con altre figure professionali presenti nelle strutture, con il coinvolgimento diretto dei soggetti interessati e/o delle loro famiglie, dei gruppi, della collettività;

d)    opera sulle famiglie e sul contesto sociale dei pazienti, allo scopo di favorire il reinserimento nelle comunità;

e)     partecipa ad attività di studio, ricerca e documentazione, finalizzate agli scopi sopra elencati.

 

III.             L’ E.P. contribuisce alla formazione degli studenti e del personale di supporto, concorre direttamente all’aggiornamento relativo al proprio profilo professionale e all’educazione alla salute.

IV.           L’E.P. svolge la sua attività, nell’ambito delle proprie competenze, in strutture e servizi socio- sanitari  e socio educativi pubblici o privati, sul territorio, nelle strutture residenziali e semiresidenziali, in regime di dipendenza o libero professionale.

 

Tuttavia in mancanza di una determinazione giuridica nazionale definitiva della figura dell’educatore, spetta alle Regioni normare il suo profilo ed organizzarne la formazione.

Per questo motivo trarre una esaustiva descrizione della figura educativa dal punto di vista legislativo è difficile, anche perché sono state soprattutto le vicissitudini umane di questi ultimi anni a determinarne l’evoluzione.

Quella che è anche la mia professione, è da considerarsi in continua definizione: molti servizi richiedono all’educatore di accudire, di assistere, a volte di contenere gli utenti. Altri servizi invece richiedono di sganciarsi dal dualismo educatore/ utente ed aprirsi al territorio, fare un lavoro di rete che coinvolga il contesto sociale, familiare, ecc.

Di sicuro mi sento di affermare che non esiste “ l’educatore onnipotente”, colui cioè che favorisce lo sviluppo, valorizza le risorse, restituisce dignità, sperimenta azioni, studia nuove risposte e tollera però anche l’incertezza.

Siamo semplicemente dei professionisti che possiedono e ricercano continuamente degli strumenti operativi e metodologici per lavorare con l’utenza, realizzando progetti con loro, per loro e per noi.

L’attenzione al “ caso” deve tradursi in un’attenzione all’utente; i cambiamenti individuali devono essere supportati anche da un‘evoluzione del contesto di vita ed ambientale. L’importanza del ruolo dell’educatore  sta dunque nel sostenere, accompagnare, orientare i percorsi di vita, di crescita e di cambiamento delle persone.

In riferimento alla legislatura ed al riconoscimento del profilo professionale si potrebbe osservare che l’educatore lavora in servizi che spesso non sono identificabili e  divisibili in sociale, sanitario e assistenziale.

Si trova in una situazione dove occorre la legittimazione professionale e le istituzioni dovrebbero farsi carico del problema e rispondere concependo un unico profilo professionale e percorso formativo.

Ma la vera sfida  per l’educatore, che siamo pronti a raccogliere , oltre al riconoscimento nelle équipe di lavoro e nel contesto professionale in generale,è quella del riconoscimento in Europa.

L’ educatore professionale deve divenire uno specialista nell’aiutare le persone che entrano in contatto con una comunità terapeutica, a rimodellare i propri valori socio-morali .

A questo punto vorrei aprire una parentesi sul modo di essere e di sentirsi educatore in un’équipe operativa.

La maggior parte degli educatori con cui ho avuto modo di confrontarmi, afferma infatti che l’esperienza professionale sul campo,modifica la rappresentazione della identità professionale acquisita durante la formazione teorica.

Il rapporto con i vincoli della realtà, il confronto-scontro con i colleghi, la fatica di comprendere i molteplici fattori che determinano le situazioni di disagio, la difficoltà di progettare, hanno messo in discussione molte volte i riferimenti concettuali, i modelli educativi, le aspettative e le fantasie strutturatesi nel tempo.

In molti sostengono che con l’andare del tempo le aspettative di cambiamento dei contesti e dei fenomeni sociali  si ridimensionano.

In effetti il confronto con le situazioni lavorative ammorbidisce nella maggior parte dei casi le posizioni ideologiche dell’inizio;ma aumenta dall’altra parte la tolleranza verso situazioni che attivano vissuti di confusione, fallimento e frustrazione, anche perché prendere le distanze dalle relazioni fortemente cariche di emozioni, come se ne presentano spesso in questo  lavoro, non è facile.

Tuttavia, personalmente ho preso atto che entrare nei servizi offre agli educatori, non solo occasioni frustranti, ma anche la possibilità di apprendere nuovi strumenti e consolidare le competenze, soprattutto quelle relative al metodo di lavoro.

Rispetto poi al modo di come si viene percepiti nel servizio e di come ci si percepisce, negli ultimi anni si sono verificati dei cambiamenti nella relazione con i colleghi e con l’organizzazione stessa, ed in alcuni casi si riscontra la nascita di sani rapporti di collaborazione e sostegno reciproco, e non solo stanchezza da “traino” di un lavoro difficile.

Ci sono infine delle variabili che caratterizzano diversi modi di essere educatore:la differenza non è solo il servizio o la struttura, ma oltresì nei linguaggi, negli strumenti e nelle metodologie di lavoro.

Vi sono ad esempio gli educatori- tecnici, prevalentemente impegnati a progettare nei minimi dettagli l’intervento, e gli educatori invece proiettati maggiormente alla relazione educativa.

Vi è poi l’educatore che si identifica con lo psicologo, e quello che si identifica nell’assistente sociale.

E infine c’è l’educatore fortemente motivato e quello “scoppiato”.

Detto ciò si possono individuare alcuni modelli- educativi quadro quali:

 

v       Educatore programmatore- educatore improvvisatore

v       Educatore radicale

v       Educatore padre- madre

v       Educatore demotivato

v       Educatore formato a scuola – educatore formato sul campo

v       Educatore psicologo

v       Educatore tecnico.

 

Questo serve anche per fare dei confronti con le altre figure dell’équipe di cui si fa parte.

 Ideologicamente posso dire che ci si sente più vicini agli psicologi perché anche loro non portano una cultura assistenziale nei servizi come l’assistente sociale, o sanitaria, come i medici e gli infermieri.

A volte capita di sentirsi pure sociologi, per la preoccupazione costante di capire la realtà,di leggerla ed interpretarla.

Sostanzialmente l’educatore dovrebbe sentirsi vicino all’educatore, nel senso che tutte le altre professioni sono diverse, per competenza, ruoli e funzioni nei servizi.

Una  lettura dell’educatore/ educatrice  dal punto di vista della funzione, del ruolo e delle prospettive della professione in senso pieno non è comunque cosa facile.

Le sfaccettature sono molteplici, i rimandi non ben determinati e i codici culturali e scientifici spesso deboli.

Il welfare futuro più o meno rivisto e ridimensionato, le politiche di trasformazione dei diversi servizi (dalla scuola, alla sanità, all’assistenza), lo statuto della pedagogia e la molteplicità di personaggi, fanno di questo interrogarsi sul lavoro educativo un terreno impervio di analisi e progettazione sociale.

Proprio per questo la figura dell’educatore/educatrice assume una funzione paradigmatica delle trasformazioni in corso a cui essa è connessa.

Essa rimanda anche a scenari e processi ben più ampi di quelli che in genere si ritengono strettamente pertinenti al lavoro educativo.

In proposito farei un breve cenno di una ricerca sul futuro della professione educativa, dalla quale emerge che si tratta prima di tutto di una professione giovane-adulta.

Ma il tratto secondo me più interessante di questa ricerca, che sottoscriverei, e che descrive quella educativa come una professione che si apprende soprattutto sul campo, nell’accompagnamento quotidiano delle persone in difficoltà( è la pratica quotidiana che offre gli elementi di costruzione della propria professionalità).

Come una professione ad alto rischio di insuccesso, o comunque dove il risultato auspicato si può verificare solo su tempi lunghi, nella consapevolezza della sostanziale impossibilità di controllare  tutte le variabili  che possono determinare l’esito educativo.

E l’insicurezza dei risultati si riverbera in una maggiore esigenza da parte nostra , ad avere strumenti di intervento qualificati, saperi forti, lavoro ed elaborazione collettiva.

Meticciato linguistico, assenza di un riconoscimento professionale nazionale, conflittualità tra modelli educativi istituzionali e modelli territoriali, mancanza di luoghi di rielaborazione, isolamento nel rapporto personale, sono così le variabili che, a seconda dei casi, fanno dell’educatore, in positivo un bricoleur o in negativo un operatore alla ricerca della propria identità.


Organizzazione del lavoro e dell’équipe in comunità

 

 

L’équipe, nella sua completezza, lavora all’interno della struttura

comunitaria , ma accompagna l’utenza anche nei suoi spostamenti nel territorio, nelle uscite  risocializzanti ,nella sua vita all’esterno .

Questo implica da parte sua, un continuo dialogo al suo interno,ma anche con i servizi invianti e territoriali, che diventa più utile e fattivo se organizzato su scansioni sistematiche e regolari.

Questa apertura al sociale significa gestire un processo di continua interazione tra interno- esterno, quest’ultimo inteso come tutto ciò che accade nella vita di ogni giorno: dal contatto con il barista, alla partecipazione ad attività di quartiere, ai contatti con le associazioni di volontariato.

Per processo si intende il complesso delle attività che coinvolgono operatori e pazienti all’interno del progetto terapeutico, ovvero il contenuto dinamico ed in continua evoluzione di ogni singolo intervento.

Per descrivere l’organizzazione di un’équipe, in tal caso della “mia” équipe, credo però che vadano premessi alcuni chiarimenti sul concetto di Comunità terapeutica riabilitativa,( d’ora in poi per comodità discorsiva,mi riferirò ad essa con la sigla CT), secondo i più recenti suggerimenti scientifici e le moderne modalità attuative.

Tom Main, uno dei padri fondatori del “modello inglese” della CT, la descrive come “un tentativo di utilizzare l’ospedale come una comunità il cui scopo immediato è la piena partecipazione alla vita quotidiana di tutti i suoi appartenenti, mentre l’obiettivo finale è la reintegrazione dell’individuo nella vita sociale”[1] ( Main 1983).

Oggi aggiungeremmo che il modello “si fonda sull’indagine del comportamento e sulla ricerca di nuove modalità di relazione attraverso una moltitudine di setting interpersonali”.

Occorre infine tenere presente che la CT è anche un oggetto mutevole nel tempo, più processo che oggetto a dire il vero o, con le parole di Hinshelwood (2001), “un’organizzazione che si reinventa continuamente ogni giorno”, sia pure all’interno di alcune direttrici che ne determinano lo sviluppo : la sua storia in primo luogo, la sua struttura e cultura organizzativa, ma soprattutto l’ambiente sociale e politico, con il quale in molti modi interagisce ed al quale deve inevitabilmente adattarsi se vuole sopravvivere.

Ma adattarsi vuol dire cambiare e il cambiamento, sempre e spesso fonte di resistenza, può significare trasformazione, innovazione creativa, e altre volte purtroppo anche degrado.

Andando avanti nella descrizione della CT.,vediamo che la residenzialità viene oggi intesa come un insieme di persone, un gruppo omogeneo che esprime , pur nella individualità degli ospiti, comuni necessità, contiguità dei bisogni, programmi simmetrici.

Perciò ogni comunità terapeutica e riabilitativa si forma grazie a contestuali richieste dei singoli partecipanti, i quali manifestano esigenze affini e che convergono verso comuni obiettivi.

Detto questo si può comprendere che ogni comunità determini le proprie caratteristiche, diversificandone la conduzione.

Non esiste cioè un solo modello di comunità, e di conseguenza non esiste un’équipe standard per tutte le comunità.

È fondamentale a questo punto, la funzionalità dell’équipe terapeutica, non tanto il ruolo.

Questo è un concetto nuovo, legato al valore della residenzialità come tale, e non del ricovero: è comprensibile dunque che così come sono  intese, le dinamiche che si creano all’interno del gruppo di lavoro, sconvolgano i vecchi schemi assistenziali riguardanti la terapia.

Lo stesso dicasi del tradizionale rapporto terapeuta- paziente.

Alla luce di quanto sopra, mi sembra che esprimere i meccanismi organizzativi di un’équipe in termini di valori numerici , può portare fuori strada.

Tuttavia non sempre un alto numero di addetti o di qualifiche più o meno funzionali significa buona qualità dell’intervento.

Potrebbe anche significare cattiva gestione, rigidità delle mansioni, frammentazione dell’intervento, ciò a scapito della componente terapeutica.

Maggiore è il peso di quest’ultima, migliore dovrebbe essere la qualità dell’intervento.

È ovvio che bisogna garantire la continuità terapeutica- assistenziale

 nel servizio e rispettare dei parametri di rapporti operatori- utenti (generalmente 1 su 3 nel caso di strutture semi- protette ).

Per quel che concerne la cultura organizzativa, si può dire che essa  è  costituita da quel complesso di modelli, procedure, norme esplicite, rituali, simboli, valori dichiarati e climi emotivi che ne rappresentano la “struttura emersa”; ma la vera fonte dei valori, dei significati e delle motivazioni che la sorreggono risiede piuttosto nella sua zona d’ombra, in quella parte sommersa abitata da tutto ciò che è implicito e scontato, non-detto o semplicemente inconscio, ovvero da miti, credenze e valori tacitamente condivisi, pregiudizi, fantasie, sentimenti, e in definitiva dalle ansie e dalle relative difese.

Sfortunatamente questo livello, proprio perché nascosto, è anche difficile da indagare.

Tra i possibili metodi esplorativi per accedere a questi livelli informali ed inconsci della cultura organizzativa si sono rivelate molto promettenti le tecniche dette di ”osservazione istituzionale”.

L’osservazione istituzionale, assieme a quella partecipante, mira a conoscere il funzionamento di un’istituzione, con particolare riguardo agli aspetti emotivi inconsci e ai processi relazionali che vi sono implicati, utilizzando un metodo derivato della cosiddetta “infant observation”, la tecnica per l’esplorazione della relazione madre-bambino originariamente creata dalla psicoanalista inglese Esther Bick e successivamente sviluppata come metodo di formazione per psicoterapeuti, psichiatri ed educatori operanti nelle istituzioni di cura e assistenza.

Lo scopo di questo lavoro è appunto l’analisi dei processi relazionali e comunicativi implicati nel lavoro in CT: sono convinta che “la parola” e i “gesti” hanno anche una sorta di potere catartico nel lavoro con l’utenza, tale da assumere in alcune circostanze,valenza farmacologia: sono in grado di determinare e modificare comportamenti.

In proposito citerei Freud che sostiene: “le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro”[2].

A questo punto credo sia opportuno procedere nell’ individuare e descrivere gli elementi- base che costituiscono la cultura organizzativa della CT.

Essi sono:

 

A)         Il modello organizzativo

 

Il modello organizzativo di un’istituzione sociale dipende in larga misura dalla sua missione e dal suo compito primario, che a volte è poco chiaro, oltre che da una serie di fattori e processi espliciti ed impliciti, consci ed inconsci. Corollari inevitabili della scarsa chiarezza del compito primario sono l’indefinitezza dei ruoli e l’ambiguità dei singoli compiti istituzionali , le “missioni impossibili”,  l’impossibilità per gli operatori di capire se stanno lavorando bene o no, l’aumento dell’ansia circolante senza adeguati argini di contenimento, e in ultima analisi, la sua ricaduta in termini di crisi acute, incidenti, paranoia istituzionale, mobbing e burnout.

I modelli organizzativi pertanto, possono avere una valenza difensiva contro aspetti ansiogeni o dolorosi inconfessati ,propri del compito primario dell’istituzione.

Ci sono infatti forti tensioni ed angosce che permeano la cultura organizzativa della CT . La   tensione principale è forse quella che si crea tra due compiti di pari importanza, quello di accogliere e quello di far crescere.

In termini più fenomenologici  potremmo tentare di descrivere la cultura della CT come una filosofia di lavoro che include e privilegia:

o                    l’enfasi sulla vita in comune;

o                    quotidiano la partecipazione di curanti e pazienti alla gestione del, con particolare riferimento alla “cogestione dell’ansia”;

o                    l’attenzione ai processi di gruppo;

o                    l’espressione aperta e pubblica dei sentimenti, anche e soprattutto quelli più “scomodi”;

o                    il confronto con la realtà e con l’ambiente sociale;

o                    la dimensione contrattuale dell’accoglienza e della cura;

o                    l’accento sulla riflessività (“cultura dell’indagine”) e sull’apprendimento come risorse emancipative e antidoti all’istituzionalizzazione.

Soprattutto il coinvolgimento dei pazienti nella gestione della vita comunitaria modifica profondamente la struttura dell’autorità e la fisionomia della leadership. Non si può davvero concepire una CT a gestione autoritaria e verticistica, governata da una rigida struttura gerarchica e da una scissione verticale tra i ruoli di curante e quelli di paziente. Questa delega di potere verso il basso, questo “empowerment” delle figure istituzionali più “deboli” (gli operatori di prima linea, i residenti) sono in effetti gli aspetti più tipici della cultura organizzativa della CT.

In tal senso due dei possibili indicatori di qualità riferiti alle modalità di organizzazione del lavoro d’équipe sono inoltre:

 

1)          Capacità di concordare il progetto terapeutico con il paziente.

 

La possibilità di concordare il progetto con il paziente, è il primo passo per poter realmente accogliere le parti deboli e bisognose di dipendenza, ma anche e soprattutto per riconoscere, sostenere e ridare significato alle parti sane: non è infatti possibile parlare di processo di cura senza il coinvolgimento diretto ed attivo del paziente nella costruzione della relazione sin dalla sue fasi iniziali. In caso contrario si farà tutt’al più una buona assistenza, e purtroppo in casi di evidente cronicità, questo capita.

 

2)          Condivisione del progetto terapeutico fra tutta l’équipe.

 

Condividere e co- gestire il progetto significa non disperdere e riconnettere i singoli interventi quotidiani, coglierne ed elaborarne i momenti significativi; vuol dire democraticizzare il progetto stesso e nel contempo porre le basi per un buon livello di integrazione del gruppo pazienti e degli operatori e per il coinvolgimento dei pazienti stessi.

B)         La cultura dell’indagine.

 

Il termine “cultura dell’indagine” (“culture of inquiry”) è stato coniato dallo stesso T.Main per indicare “un impegno comune ad esaminare francamente e a risolvere problemi, tensioni e conflitti all’interno del gruppo della comunità”[3] .

Essa è centrata sull’esplorazione delle relazioni e dei comportamenti individuali e collettivi con particolare attenzione al non-visto, al non-comunicato, all’implicito e all’informale, in breve ai processi inconsci e preconsci che si animano nella vita comunitaria.

 Finalità della cultura dell’indagine è la creazione e il mantenimento da parte degli individui e dei gruppi, di una condizione di sensibilità che permetta di diventare consapevoli di certi processi relazionali e di riconoscere le ansie e le difese istituzionali ed il gioco reciproco tra queste ultime, e le ansie e le difese individuali, tanto nei pazienti quanto negli operatori.

Essa implica evidentemente anche la creazione e il mantenimento di uno stato mentale e di un clima istituzionale favorevoli all’indagine stessa, ovvero quelle condizioni di sicurezza, apertura e fiducia di base che permettono all’attenzione critica di non diventare persecutoria e distruttiva.

Tra le ansie e le difese caratteristiche della CT si possono menzionare: l’indifferenziazione dei ruoli e l’egualitarismo come difesa dalle differenze e dall’invidia; la paralisi decisionale o all’opposto la decisionalità impulsiva, la ricerca del capro espiatorio ed i processi sommari come forme di evacuazione dell’ansia di sentirsi incapaci o della paura di sbagliare e di venire biasimati, sia dall’esterno sia dall’interno; ”l’accanimento interpretativo” come difesa intellettualizzante,la depressione dell’insuccesso e l’angoscia di non capire e sentirsi confusi; l’inflazione di riunioni e gruppi (che qualcuno ha chiamato “riunionite”) come rituale coesivo contro la frammentazione, la paura della rivalità, il senso di solitudine e l’ansia da contatto/contagio con il paziente; l’iperattivismo organizzativo e occupazionale come fuga nell’azione di fronte agli aspetti ansiogeni dell’attività riflessiva e del confronto emozionale; la burocratizzazione, la mistica delle regole ecc.

Un significato particolare presentano poi le “difese di ruolo”, basate sulla scissione tra la persona e il ruolo istituzionale da questa rivestito: in CT il ruolo di curante può essere facilmente utilizzato come trincea contro le identificazioni pericolose con i pazienti, così come il camice negli ospedali.

 

C)         La cultura dell’azione

 

Chiunque abbia visto una CT non può non essere stato colpito dall’enfasi che la cultura organizzativa colloca in misura maggiore o minore sulla dimensione dell’agire, dell’essere  operatori occupati in qualche forma di attività o, al contrario, oppressi dal problema dell’inerzia e della passività.

Nella CT il fare è quindi sempre in primo piano ed è in stretta relazione con l’esperienza della quotidianità, con la condivisione dei momenti di vita e con la necessità di risolvere continuamente problemi pratici e insieme affettivi.

Occorre riconoscere che in CT l’azione si propone di diventare parte integrante del progetto di cura; e questo non solo perché affronta questioni pratiche di cui non possiamo evitare di occuparci (l’accoglienza e l’accudimento, il controllo e il contenimento, la condivisione delle responsabilità legate alla vita quotidiana, alla gestione dell’ambiente di vita, allo svolgimento di un lavoro), ma perché nella maggior parte dei casi essa si rivela il solo linguaggio per poter comunicare con pazienti che funzionano con processi mentali molto primitivi e per operare trasformativamente sul loro mondo interno.

Le “azioni parlanti” , come modalità di intervento contrapposte alle classiche interpretazioni,creano nel contesto comunitario uno scenario rappresentazionale nel quale la realtà esterna e quella mentale possono incontrarsi e rifornirsi reciprocamente di senso. In questi termini l’organizzazione della CT rende disponibili agli operatori una serie di opportunità per “apprendere dal fare”, utilizzabili come strumenti di integrazione del sé, di sollievo dall’ansia, di padronanza degli impulsi e di sviluppo individuale e collettivo.

 

D)         La cultura della relazione

 

Le relazioni interpersonali sono lo strumento principale, la tecnologia di base del lavoro comunitario.

Nella cultura organizzativa della CT l’attenzione è costantemente rivolta a cogliere l’atmosfera relazionale nel suo insieme (lo “stato mentale” del gruppo o dell’istituzione) e ad esplorare le relazioni che si creano nelle aree strutturate della vita istituzionale ma soprattutto in quelle non-strutturate, negli spazi interstiziali e nei “corridoi”, nei momenti informali e negli atteggiamenti più irrituali e spontanei.

La cultura organizzativa della CT deve attrezzarsi per far fronte ai problemi specifici dei vari piani relazionali che al livello delle équipe operative sono rappresentati dalle tensioni di ruolo, dal bisogno di coesione, dalla tensione tra rivalità e collaborazione, dall’integrazione, dalla gelosia, dall’invidia,dalle proiezioni dei lati deboli e incapaci.

Il contesto relazionale più tipico della CT è quello offerto dal gruppo allargato, che si concretizza nella “riunione” o “assemblea” di comunità tra operatori.

 

E)         La cultura del conflitto

 

Il lavoro in CT è un lavoro rischioso - soprattutto per la propria pace mentale - e il rischio primario consiste  proprio nel magma conflittuale in cui gli operatori sono quotidianamente immersi. Conflitti e antinomie si creano continuamente tra le sottoculture che convergono nel lavoro di comunità.

Una componente strutturale della conflittualità è originata dalla coabitazione nella CT, accanto alle figure e culture professionali tradizionali (medico, psicologo, infermiere e assistente sociale), di realtà nuove e diverse rappresentate appunto dagli educatori, da terapisti occupazionali, arte-terapisti ecc.

Cruciale per il destino della CT è l’esito del confronto/conflitto tra le sue tre culture professionali basilari: la cultura medico-biologica, quella psicologica e quella socio-educativa.

Per molto tempo ci si è chiesti se la CT fosse un’istituzione “sanitaria” o non-sanitaria (psicoterapeutica, socio-pedagogica), ma in realtà il punto è che il movimento comunitario, pur essendo nato in ospedale, ha sviluppato fin dagli inizi una cultura di tipo “anti-sanitario”, proprio per marcare la differenza rispetto agli abusi di cui il sistema sanitario psichiatrico tradizionale si era macchiato e per sottrarre le proprie sperimentazioni all’egemonia del modello medico ospedaliero ed accademico.

Tutto ciò ha riproposto il conflitto interculturale tra sistemi teorici, strumenti e linguaggi diversi e talora molto distanti tra loro.

Il problema evidente non è come abolire i conflitti, ma come contenerli perché non divengano distruttivi pur conservando la loro funzione dinamica, che è quella di mobilizzare il pensiero nell’istituzione.

Una cultura che accetta il conflitto deve però disporre necessariamente di tecniche e dispositivi per la sua gestione, tra le quali le risorse, la qualità del clima relazionale, la capacità di distinguere tra conflitti fisiologici e patologici nonché tra aspetti costruttivi e distruttivi dei conflitti.

 

 

 

 

F)         La comunità come organizzazione narcisistica

 

Il lavoro in una CT è segnato da un evidente missione salvifica, senza voler fare con ciò spicciolo moralismo.

Uno dei pericoli più evidenti di questa missione è per l’operatore la “sindrome del re Sole”, cioè l’identificazione totale tra la persona , il suo ruolo istituzionale e la stessa istituzione, vissuta come la propria famiglia, il proprio corpo, un’estensione del Sé.

L’isolamento “narcisistico” è uno dei rischi più comuni per la cultura organizzativa comunitaria. Molte comunità infatti si mostrano restie a un effettivo confronto con l’esterno.

Strettamente avvinghiati ai propri orientamenti teorici (psicodinamico, cognitivista, psico-sociale,ecc.ecc. ) si guarda il vicino con diffidenza o con formale tolleranza.

Tuttavia gli esiti dell’isolamento possono essere davvero infelici.

In qualche caso  il cocktail tra narcisismo organizzativo e i prodotti più “tossici” lavorati dal sistema-comunità (follia, violenza, sesso, droga) possono portare all’esplosione del contenitore: gli operatori si ammalano o fuggono, capita qualche grave incidente, si finisce sul giornale. L’incubo notturno di tutti i responsabili di comunità!

Ecco perché una CT ed il lavoro dell’équipe al suo interno,non si possono improvvisare; perché la sua fondazione e la sua sopravvivenza hanno bisogno di grandi investimenti, in termini di risorse economiche, ma soprattutto tecniche ed affettive.

In ultimo , dall’analisi degli atti relativi al Convegno “Le Comunità Terapeutiche in Europa e in Italia: mito e attualità”,cui io stessa  ho preso parte insieme ad alcuni colleghi educatori e psicologi nel dicembre del 2004, emerge che nell’ambito del lavoro comunitario, non è importante solo la dimensione psicologica, ma è centrale anche la dimensione pedagogica, ossia l’elemento di fondo concernente l’educabilità, o meno, dell’utente in carico.

La funzione pedagogica dell’équipe trova manifestazione concreta attraverso un’ampia fenomenologia di elementi educativi, tra cui centrali risultano la dimensione e l’organizzazione del tempo e dello spazio,la relazione operatore- paziente, la dimensione del gruppo e le regole di vita comunitaria.

In Italia inoltre, le CT moderne, si collegano ad un’idea che era presente sin dagli albori della psichiatria come scienza che è quella del traitement moral  lanciata da Pinel,e pertanto lavorano per la presa in carico da parte dell’équipe, non solo della persona, ma anche del suo disagio mentale, senza ricorrere alla contenzione o all’esclusione.

In quest’ottica la moderna CT e la sua équipe, sono un’insostituibile strumento di lavoro per rendere concreta l’utopia di un intervento non sgregante, non repressivo, ma piuttosto psicosociale, psicoterapeutico e rieducativo.

 




[1]  Main 1983

[2] Vita ed Opere di Freud- 1962

[3] Main 1983