INDICE CAPITOLO III Contesto cooperativo e coordinazione.
Coordinazione
delle figure professionali durante l’attività
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CAPITOLO IIIApplicazione del metodo ed osservazione in situazione
Contesto cooperativo e coordinazione.
Per
contesto cooperativo si intende il contesto del lavoro di gruppo, dando
per scontato il senso della collaborazione tra le figure. La
dimensione collettiva del lavoro oggi è infatti pienamente riconosciuta,
anche in psichiatria come abbiamo visto. In senso generico invece la coordinazione designa l’accordo di più
funzioni distinte, ma complementari. Dall’originario significato fisiologico sono derivate analogie
psicologiche, sociologiche ed amministrative. In senso sociologico si parla di coordinazione per indicare la funzione
direttiva che si esplica nel guidare altrui attività, aventi un proprio
margine di iniziativa originale e non strettamente subordinate. La comprensione del lavoro non può quindi essere soddisfatta
dall’analisi delle azioni individuali: essa mette in gioco i rapporti
tra queste azioni. E’ dalla circoscrizione di un collettivo di lavoro “coordinato”
che inizia il mio percorso di osservazione e registrazione: questo
collettivo è rappresentato per l’appunto dall’équipe in cui ho
lavorato negli ultimi anni, un gruppo di persone con cui ho vissuto giorno
per giorno,di cui ho imparato a scoprire lato professionale e lato umano
(sensazione inevitabile dell’esperienza etnografica). Il
gruppo di lavoro in questione, ha faticato non poco prima di comprendere e
circoscrivere i cosiddetti principi del “ fare insieme” adatti al
nostro contesto. Difatti è stato un cast che è cresciuto insieme dall’ esordio. Solo tre figure dell’équipe storica sono rimaste nell’organico al
momento della sua ridefinizione: quella del responsabile medico , di un
infermiere e della psicologa di comunità. Il resto si è definito nel giro di
circa sei mesi, come già accennato e descritto nel Cap.I . Al ceppo stabile si sono aggiunti nel corso dei miei tre anni di
esperienza, un’altra psicologa, che gestisce un gruppo di una sorta di
psicoterapia ( Social Skill Training), vari tirocinanti, elementi del
servizio civile volontario, ed un’altra psichiatra di riferimento. Si è ridefinito anche il mio ruolo, in quanto, come detto en
passant, promossa a “referente” del gruppo educatori dopo circa un
anno, e dovendo così gestire ,in piccolo, la coordinazione del gruppo
educativo, con tutto ciò che essa comporta, ovvero turnazioni, incarichi,
ecc.ecc. Si è trattato dunque di costruire una nuova catena di attività, un
nuovo sistema cooperativo al cui interno ciascuno avesse un’appropriata
autonomia d’intervento, ma parziale in funzione a quella di tutta l’équipe. Questo processo è delicato da analizzare e, anche per circoscrivere
meglio le condizioni dell’efficacia collettiva, ho deciso di effettuare
lo studio della comunicazione nel lavoro, consapevole delle difficoltà
che a volte si incontrano nell’intersezione di linguaggi diversi, ma
allo stesso tempo complementari, e quanto questa difficoltà possa creare
delle incognite nella coordinazione di tutte le attività. Una delle peculiarità di rilievo nella coordinazione dell’équipe e
che, contrariamente alle situazioni di collaborazioni “classiche”, in
questo caso il gruppo di lavoro non è fisicamente riunito sempre nello
stesso luogo e nello stesso momento, a parte qualche eccezione. Per ciò è importante l’esplorazione della dimensione collettiva
attraverso un’osservazione ravvicinata. La cooperazione all’interno del gruppo si rivela un’arma importante
per portare a termine il progetto individuale di ogni utente e non solo:
può
portare i membri dell'équipe a riscoprirsi reciprocamente solidali
e aventi la volontà di coltivare nessi motivazionali. Nel caso poi di un’équipe di tipo socio-sanitario che opera in un
ambiente più circoscritto di un ospedale,come la Comunità Terapeutica,
ma che presenta le stesse difficoltà di gestione,in quanto suo
surrogato,la coordinazione è un problema cruciale, e prevede un doppio
impegno: uno, informale, in ogni momento del lavoro, a seconda delle
circostanze e delle esigenze delle attività .L’altro, come supporto
all’unione del gruppo ed al passaggio di informazioni specifiche. Un’ottimale dimostrazione di funzionalità e coordinazione del lavoro
d’équipe ritengo sia la miglior carta da giocare per acquistare
credibilità all’esterno. Tutti operatori potranno infatti, se in grado di individuare obiettivi
comuni e mantenere alto il grado di controllo sull’operatività della
CT, assumere un ruolo di stimolo e di costante confronto con i livelli
tecnici, politici e istituzionali, chiamandoli, come è già avvenuto in
passato attraverso la
denuncia di episodi di abusi e di uso improprio delle risorse, a
rispondere pubblicamente del disinteresse, delle connivenze diffuse e,più
complessivamente, della situazione di sfiducia in cui versa parte del
sistema pubblico dei servizi di salute mentale. La cooperazione, non solo tra le singole figure professionali di un’équipe,
ma anche tra le équipe di tutti i servizi territoriali,è strumento
basilare per dare inizio ad un nuovo periodo in cui si stringeranno
alleanze per sviluppare collaborazione. La creazione di un contesto di positiva collaborazione, non dipende
ovviamente solo dai responsabili o dai vertici della gerarchia sanitaria,
che a tutti gli effetti esiste, anche se negli ultimi anni si è
annichilito un po’ il clima di sottomissione che predominava in passato
il lavoro nel campo. La dimostrazione di un’effettiva cooperazione è opera di tutti i
personaggi dell’équipe e deve mostrarsi nel suo essere sin
dall’inizio, dalla considerazione del
sofferente psichico, della sua storia, del suo contesto e della
progettualità di vita della persona stessa. La carenza in queste aree negli anni scorsi ha fatto si che la
“fama” dell’istituzione riabilitativa non fosse proprio superlativa:
si sono registrate situazioni
organizzative molto precarie e clima pessimo nel rapporto tra gli
operatori a tutti i livelli,con gravi danni alla professionalità ed alla
dignità di tutti loro. Il tutto con conseguente
ripercussione sul trattamento delle persone che necessitano dell’
assistenza psichiatrica. Tutt’oggi in alcuni casi mancano accoglienza, ascolto, informazione,
lavoro d’équipe e, nota dolente, personale. Il problema della carenza di organico tra l’altro non è stato mai
veramente affrontato e pertanto mai risolto. Anche i collegamenti tra i vari servizi interni ai DSM cui appartengono
le CT sono in taluni casi limitati. In questi casi l’operatore, pur di far fronte alle situazioni
difficili, si carica di un dannoso ed improduttivo stress; si chiude
dietro l’atteggiamento mentale della difesa del paziente sofferente. Il manicomio sta così nella testa dello stesso operatore, il quale costruisce dentro di sé le barriere necessarie per non entrare nella sofferenza dell’altro, temendo di diventarne portatore egli stesso. E se la carenza di cooperazione e coordinazione all’interno di una
sola équipe può provocare disagio, figuriamoci se la stessa si presenta
a livello territoriale, tra i vari servizi. Ci si troverebbe di fronte alla mancanza dei progetti individualizzati
che coinvolgono paziente e famiglia, purtroppo a sua volta molto spesso
disinteressata, verrebbero cancellati i possibili recuperi e vanificati
quelli progettati; la riabilitazione psichiatrica verrebbe effettuata,
come accade in alcune situazioni, in cliniche private che provano a farsi
chiamare “Case di cura”, somigliandovi solo lontanamente,con ulteriore
spesa di milioni di euro a danno degli utenti e della collettività. Ragionare in termini economici non mi piace,ancora di più quando è in
gioco la vita delle persone. Ma mi rendo conto che a volte si sprecano risorse per semplici non
curanze. Tutto ciò non va sicuramente a favore delle tanto sospirate carriere
degli operatori. A volte l’équipe si barrica anche dietro le pratiche cronicizzanti,
che rinforzano processi di segregazione e di esclusione degli utenti dalla
comunità, e tutto ciò per l’incapacità di gestire le forze
centrifughe al suo interno e dunque per l’assenza di un assetto
organizzativo definito. Dietro le barriere si può
presentare un quadro generale caratterizzato
da una estrema frantumazione del servizio e da una spiccata
autoreferenzialità delle figure, con uno scollegamento sia tra gli stessi servizi che tra i diversi
operatori, i quali spesso sono completamente all’oscuro dei programmi e
delle attività dei colleghi. In questo modo possono scarseggiare anche le risorse umane riguardanti
tutte le figure professionali di un’équipe, sia quella del medico che
dell’educatore che dell’infermiere; e quando ci sono,queste vengono
sfruttate per effettuare interventi finalizzati alla gestione della crisi
e dell’urgenza psichiatrica. Si trascura l’attività preventiva, curativa e riabilitativa che,
secondo la legge 180 e le successive indicazioni normative, rappresenta la
principale finalità di un sistema pubblico di servizi di salute mentale. Prevalgono gli interventi individuali e i rapporti caratterizzati da
distanza gerarchica tra i diversi ruoli. In situazioni di carenza organizzativa e cooperativa ,gli interventi
formativi sono poi diretti alle singole figure professionali e più che
altro finalizzati all’arricchimento del curriculum personale; spesso
sono anche incongrui rispetto alla funzione effettivamente svolta e
lontani dall’operatività quotidiana. Ne consegue che la gran parte degli operatori non è consapevole del
ruolo che deve esercitare ed è sprovvista di strumenti efficaci per
gestire i pazienti gravi e per promuovere processi di guarigione. Pertanto gli interventi
sono effettuati all’insegna dell’approssimazione, del buon senso
dell’uomo della strada e segnati da atteggiamenti improntati al
pietismo, al pregiudizio e al pessimismo sulle possibilità di
miglioramento. In molti inoltre, si rifugiano in compiti esclusivamente esecutivi,
effettuati passivamente e senza una reale motivazione, quasi sempre
finalizzati o ad una mera accoglienza o a generici
contenimenti basati su relazioni
episodiche e afinalistiche. La carente cooperazione tra le varie figure trasforma la CT in un grande
caos ,dove tutti corrono su e giù senza nessi ,e produce scontri
tra le stesse. Questi
scontri “professionali” finiscono col ripercuotersi sul
paziente, il quale non viene “studiato” come meriterebbe, e pertanto
si rischia col diventare, come spesso ho sentito ripetere, un’équipe
espulsiva, con prevalenza di atteggiamenti di attesa nei confronti dei
pazienti Negli ultimi 20 anni poi,le scelte politiche hanno rinviato troppo a
forme organizzative che riproducono istituzionalizzazione, frammentando i
servizi e impedendo protagonismo, centralità, cittadinanza, integrazione
ed emancipazione delle persone. Ma nonostante questo sono
da riconoscere dei cambiamenti, dovuti all’impegno, non in senso eroico,
di molti di noi operatori, i quali hanno cercato di accorciare le distanze
e migliorare la “comunicazione” fra i servizi e fra il personale
operante, coscienti dei limiti di efficacia che questa carenza comporta. Coordinazione delle figure professionali durante l’attività
Gran parte delle difficoltà di organizzazione e coordinazione, e quindi
di comunicazione, si manifestano nell’ l’attività quotidiana, durante
la quale, noi, come personale curante, siamo frequentemente portati a
regolare varie questioni. Per cogliere questi scambi, siano essi formali o informali, programmati
o occasionali, sovente rapidi e carichi di implicito,e anche per cogliere
in totem la frenesia dell’attività nel gruppo di lavoro, è stata per
me fondamentale la permanenza nell’équipe, sia come operatrice che come
osservatrice. Di recente, in proposito, ho avuto modo di leggere un testo[1]
che riporta il viaggio intellettuale e fisico dell’autore nel mondo
della tossicofilia, come strumento per descrivere e comprenderne meglio le
dinamiche, non vincolato ad un criterio troppo rigido e strutturato. L’autore si è perciò calato nel ruolo, considerandolo il metodo di
analisi più efficace per
problema della tossicodipendenza da eroina, ed in una particolare
dimensione in cui ha svolto l’osservazione. Ciò dimostra l’importanza del calarsi nel ruolo e nella situazione:
condivido appieno in questo senso l’essere attori tramite se stessi e
non tramite altri. Nel mio caso l’osservazione partecipante è stata più spontanea,meno
programmata. Essendo membro a tutti gli
effetti dell’équipe inoltre, sarebbe stato palesemente chimerico
seguire simultaneamente tutte le attività, le azioni incrociate, le
interconnessioni: ho dovuto per ciò trovare un filo conduttore, definire
dei margini e delle direttive, “studiare” le tecniche per capire in
ogni momento ciò a cui si andava incontro come gruppo e come singolo,
anche se poi le informazioni arrivano sempre tramite le cosiddette “vie
traverse”. Tornando alla coordinazione in senso stretto, quella di un’équipe di
CT spetta al responsabile medico al seguito del quale lavora il
coordinatore della CT stessa che, nel caso della realtà sanitaria in
Piemonte, è un infermiere. Il coordinatore agisce nel lavoro di gruppo, orientando, assistendo,
concludendo, senza tuttavia sostituirsi
ai collaboratori. Ma
non è finita qui: al fianco di quest’ultimo c’è anche il
coordinatore dell’équipe educatori in forza al servizio,assunti tramite
cooperativa sociale per aggiudicazione d’appalto( gran parte dei servizi
educativi territoriali in Piemonte ed in Italia sono in mano al privato
sociale, purtroppo o per fortuna ancora non si sa!), e c’è anche un
referente di gruppo tra gli educatori, me, nel caso specifico. Al di sopra di tutte le nostre teste, troviamo il coordinatore
dell’area comunitaria, ed ancora di più il primario del DSM. Insomma ,tanti coordinatori dividono lo scettro, ma non è detto che sia
sempre tutto coordinato. Il lavoro dell’équipe vera e propria si svolge tramite
l’interazione delle varie figure all’interno della struttura
comunitaria e con i servizi territoriali quali appunto gli ambulatori, il
day hospital ed il centro diurno ( che hanno a loro volta delle équipe
stabili come quelle di comunità). Si mantengono poi i rapporti con tutte le altre risorse del territorio,
quali associazioni di volontariato, centri ricreativi, centri sportivi e
riabilitativi che consentono di sviluppare l’intervento sul paziente a
lungo raggio. Passando alla coordinazione
organizzata vera e propria, c’è da dire che questa comprende
tutti i momenti di lavoro. Come all’interno della struttura ospedaliera, si lavora su turni, ed
anche far quadrare questi è un’impresa ardua. I turni diurni sono ovviamente i più problematici, quelli notturni
meno, anche perché sono affidati ad un’équipe di infermieri
psichiatrici, direi anche vecchio stampo, che gestiscono da soli le
proprie rotazioni, ma difatto fanno parte dell’équipe in senso stretto,
gestendo gli stessi utenti della CT. Lavorare con i turni prevede una coordinazione sistematizzata, attuata
tramite un arsenale di dispositivi di informazione specifici. Le informazioni che passano nell’arco della giornata sono centinaia e
bisogna far si che queste arrivino integre, almeno si spera, ad ogni
operatore. Il soddisfacente funzionamento di un’équipe è il risultato di un
lungo processo di interscambio e di condivisione di conoscenze
professionali e personali, nonché di un graduale passaggio da un puro e
semplice raggruppamento di individui e professionalità, all’operare
come gruppo di lavoro in senso pieno. Tutto il lavoro di articolazione che sta dietro l’organizzazione del
gruppo è molto delicato;
esso dimostra la sua debolezza o la sua stabilità al momento dei rischi e
degli incidenti, ma è alla routine quotidiana che bisogna ancorarsi. Non è poi solo il lavoro nel singolo turno che caratterizza la giornata
del singolo operatore o utente;è tutto l’insieme che rende efficiente
l’organizzazione ed è anche per questo motivo che si sente il peso del
lavoro in gruppo. Perché ogni singola azione della giornata deve essere calibrata, e
l’errore del singolo, nella maggior parte dei casi, diventa l’errore
di tutti. Coordinare e coordinarsi in questo senso non è per nulla semplice;nel
caso dell’équipe mista c’è poi un’ulteriore incognita, che è
quella delle competenze. Se per inciso lo psichiatra cura l’aspetto terapeutico psico-
farmacologico, l’infermiere quello di gestione dell’utenza dal punto
di vista clinico e l’educatore dal punto di vista della relazione, in
realtà poi tutti facciamo un po’ tutto. Diciamo che non c’è una netta differenziazione di ruoli durante le
attività della giornata, cosa sulla quale da anni si dibatte, soprattutto
in quelle équipe miste nelle quali è presente anche la figura dell’Oss,o
Adest o via dicendo, e che ancora non ha trovato una chiara soluzione. Le attività risocializzanti e riabilitative vengono comunque seguite
come referenti sia da un educatore che da un infermiere. Per quel che riguarda la parte psico- farmacologia inoltre, sembrerà
strano ma l’educatore gioca un ruolo importante, perché si ritrova ad
essere mediatore tra il
medico “ prescrivente “, l’infermiere “ esecutore” e il
paziente. Quello della compliance al trattamento farmacologico è un altro scoglio
durissimo della psichiatria, e va trattato con la dovuta sensibilità. Personalmente
non sono tra quelli che sostengono che il paziente psichiatrico si
cura solo con la relazione, anche perché la relazione è praticamente
inesistente se il paziente è in piena crisi psicotica; tuttavia il “ saper
prendere” il paziente per il verso giusto, quando si tratta di medicine,
diventa strumento importante nel lavoro di tutti i giorni, e la figura
educativa, in questo senso, è a mio avviso determinante. Le attività della giornata sono poi molteplici; quello che è chiaro è
che nonostante il grado di autonomia dell’utenza trattata, nel mio caso
buona,questa va seguita passo passo. E qui emerge il senso di maternage
tipico di tutti i gruppi di lavoro che operano con soggetti in difficoltà. Alcune caratteristiche del lavoro quotidiano variano altresì nel tempo; se ci
sono momenti di particolare tensione nel gruppo- utenti infatti l’équipe
può scegliere di modificare il piano giornaliero in base alle “priorità”,
e la stessa cosa vale per l’interazione tra il gruppo operatori. Altre caratteristiche invece rimangono tali nel tempo, il che è molto
importante soprattutto per l’immagine del luogo agli occhi del paziente
stesso; ci sono infatti delle regole del vivere in comune di cui si tende
a garantire il rispetto da parte di tutti, operatori compresi. Per questo è stato elaborato una sorta di “regolamento”, termine
usato in questo caso arbitrariamente, visto che non è un manuale di
comportamento codificato, che serva da indicatore per le normali attività,
quali orari per pranzo e cena, distribuzione dei soldi, divieti di fumo
ecc, ecc. “Partorire” l’idea del regolamento non è stato difficile quanto
l’attuarla, poiché, nonostante il parere concorde di tutti noi
operatori, lo psichiatra ha sempre titubato sulla effettiva necessità di
tale strumento, perché di questo a tutti gli effetti si tratta, di lavoro
. Sicchè, prima di entrare in vigore, il “regolamento” ha subito
numerose revisioni, nonché dibattiti sulla valenza educativa, per poi
approdare ad una comune condivisione, compresa quella democratica dello
psichiatra. Tendenzialmente anche l’équipe operante cerca di attenersi alle
“indicazioni sul comportamento”, in rispetto al principio che la
regola è uguale per tutti, e anche questo a volte è un elemento di forti
tensioni. Essere capaci di organizzare la vita degli altri d’altronde non vuol
sempre dire essere capaci di organizzare il lavoro dell’équipe in
maniera impeccabile: esistono infatti situazioni o momenti in cui anche se
l’organizzazione della vita in comunità appare minuziosa , l’équipe
in se vive momenti ingestibili e viceversa. Ribadisco a proposito della coordinazione delle diverse figure dell’équipe,
che la differenziazione dei ruoli nelle attività e nell’organizzazione
della CT è sottilissima, e la sinergia di gruppo funziona a dovere. Tuttavia questa si svela
nei momenti di confronto, di progettazione e di impostazione terapeutica
sull’utente, ed è in questi momenti che emergono le più sostanziali
difficoltà comunicative. Mi spiace non poter argomentare sul confronto dei ruoli per quel che
riguarda la figura dello psicologo di comunità, una figura molto
importante. Ma l’esperienza della mia équipe in proposito è un po’
carente, in quanto la psicologa che avrebbe dovuto seguire gli utenti era
praticamente assente, e quando c’era, cioè nelle riunioni d’équipe,
assumeva una funzione passiva. Solo nell’ultimo anno di lavoro si è aggiunta al personale curante
un’altra psicologa, con un ruolo specifico, che fortunatamente si è
mostrata un membro di appoggio per gli utenti e per gli operatori,
fungendo da figura di mediazione in alcuni scontri ideologici tra noi
educatori e lo psichiatra responsabile
della CT. Come si può evincere da quanto detto, l’organizzazione della vita e
del lavoro in CT non ha un’impostazione eccessivamente rigida e
ripetitiva come quella ospedaliera, direi
per fortuna. Ovviamente ci sono delle attività che si svolgono quotidianamente e che
prevedono interazioni e scambi tra operatori- utenti, operatori-
operatori, operatori e territorio. Insomma il detto “
è bello perché è vario” si
addice alla situazione. Momenti
di scambio collettivi
I momenti di scambio in un’équipe sono numerosi e disseminati durante
tutta la giornata di lavoro. Il passaggio delle informazioni è fondamentale per lo studio del
fenomeno comunicativo del gruppo. Un momento importantissimo nella gestione del gruppo e delle
informazione è quello del cambio turno. Il cambio turno, che ha luogo quattro volte al giorno (alle 7,alle
14.30,alle 16.30 ed alle 22), si attua in due forme: una scritta ed una
orale. Durante l’arco di ogni turno, che dura circa sette ore e mezzo, gli
operatori, siano essi educatori che infermieri, devono compilare una serie
di moduli che attestano le attività svolte durante l’arco di tempo da
ogni utente. Non solo, la documentazione cartacea
da redigere in ogni
momento della giornata, non è la singola scheda nominale ( o
dipartimentale ) di ogni utente, ma è ben spessa. Altro strumento ufficiale di passaggio di informazioni scritte è il
“Diario delle consegne”, in cui si registrano gli avvenimenti più
importanti della giornata durante l’arco dei tre turni. Ci
sono ancora il “Diario delle attività”, nel quale ogni operatore deve
annotare le attività svolte durante il servizio e con quale utente, e la
“Cartella operatori di base” o “PEI” ,come si dice in gergo
educativo, con annesso diario quotidiano dell’utente. Insomma una serie di documentazione codificata consultabile e
decifrabile dall’équipe, che serve di base all’organizzazione degli
interventi e del lavoro. Il cambio orale di informazioni avviene invece con modalità differenti,
secondo il ritmo del giorno e secondo la possibilità che hanno gli
operatori di riunirsi per
scambiarsi le informazioni dei casi. In base alla mia esperienza devo dire che dipende anche da chi e con chi
si effettua il cambio, perché alcuni operatori si limitavano a leggere il
diario quotidiano, soppesando parola per parola di quanto scritto, o
sollevando polemiche per quanto non scritto, mentre altri, me compresa,
cercavano l’interazione, seppur breve con il collega, per scambiare
impressioni e chiedere conferme. In ciò ritengo che influisca molto il carattere di ognuno, perché chi
è “affetto” dall’ansia del fare, non riesce a limitarsi
all’interpretazione scritta, e tende a sapere dal collega cosa è stato
fatto, quando, come e perché , durante l’arco del turno, in modo da
poter continuare il lavoro intrapreso. I cambi così intesi, orali e scritti, hanno ruoli diversi ma spesso
complementari: “l’uno e l’altro sono necessari per comprendere il
sistema di funzionamento e di informazione dell’équipe”[2]
. Difatti la parte scritta dei cambi, non è anonima, anzi, è spesso
assortita di commenti e domande ai colleghi, perciò è utile indagarne la
funzionalità. L’ incognita della consegna per iscritto è la difficoltà di
interpretazione che a volte si presenta, ed anche la superficialità con
cui questa viene prospettata. Anzi, a volte bisogna “ pedinare” chi si
dimentica di scrivere, anche solo le cose più importanti. Pertanto i cambi orali, queste “recitazioni” fatte nella continuità
d’azione, hanno il vantaggio di stabilire un nesso tra il luogo e gli
avvenimenti, permettono che l’informazione venga trasmessa con certezza
e soprattutto permettono di capire se il collega stesso che ti passa la
comunicazione è d’accordo con quanto è stato fatto o bisogna fare, ad
esempio provare a convincere un paziente a fare un’attività o
viceversa. Il cambio orale può essere limitato a due operatori direttamente
concernenti, informale e rapido (mentre si beve il caffè dopo pranzo),
direttamente operativo ( quando si richiama l’attenzione del collega
appositamente), poco protetto dal resto del lavoro ( mentre si è in
attività con gli utenti), ed è sottoposto a frequenti interruzioni ( il
telefono squilla perpetuamente!), tipiche di ogni servizio e di uno schema
di cambio collettivo. Il contenuto tematico dello scambio è vasto, dal paziente, alle azioni
degli operatori, alle attività lasciate in sospeso; “ ricordati di
accompagnare A.A. dal dentista nel pomeriggio”, “ bisogna compilare le
schede dipartimentali”. E mentre la prima affermazione viene recepita subito come comunicazione
di routine riguardo al paziente, la seconda, molto spesso, viene recepita
come un ‘ordine’, perché non tutti concordano con la miriade di
documentazione cartacea che bisogna compilare per mostrare
all’istituzione che si lavora tanto, ma tanto. Altro fondamentale momento di scambio orale e scritto, quello più
ufficiale, è la “Riunione d’équipe”. La riunione ha luogo una
volta la settimana, e vi dovrebbero presenziare necessariamente tutti i
membri dell’équipe, in quanto unico momento di confronto generale,
durante il quale si ufficializzano gli interventi attuati singolarmente o
in gruppo dagli operatori, e unico momento in cui si possono progettare a
grandi linee gli interventi futuri, sull’utenza e sul gruppo. Le domande su questo rituale comunicativo sono diverse: qual è ad
esempio il ruolo dei differenti partecipanti?, chi assiste a tutta la
riunione?, chi è assente?, come sono posizionati i partecipanti?, quali
sono le loro attitudini?, le conversazioni parallele?. Questo fondamentale “avvenimento
di parola” che è la riunione d’équipe o tutti i cambi orali, per
riprendere il vocabolario dell’etnografia, implica dunque
un’attenzione non solamente al contenuto del discorso, ma anche alle
pratiche ed ai rituali. Ecco come si svolge
generalmente la riunione d’équipe,tenendo presente che, proprio in
quanto avvenimento, ha delle
peculiarità che lo rendono unico di volta in volta, alternandosi casi
diversi, con predisposizioni diverse. La riunione si svolge il mercoledì pomeriggio dalle h 14 alle h 16. Oltre che avvenimento di
parola è anche un avvenimento “sacro”, in quanto unico giorno della
settimana in cui si ha la certezza, o quasi, che lo psichiatra venga in
comunità per il passaggio delle informazioni. Si svolge in sala riunioni, o in extremis nello studio medico. Per prima cosa si stila l’ordine del giorno, di cui la prima voce è
sempre “comunicazioni”, e poi vi si aggiungono i casi che bisogna
affrontare, dai pazienti, alle attività. Il tutto viene verbalizzato per iscritto, ovviamente, da un operatore,
in un apposito quaderno. La disposizione attorno alla tavola rotonda è curiosa: accanto al
medico siedono sempre ,o quasi, il coordinatore infermiere e la psicologa
di comunità. Tra gli infermieri e gli educatori non c’è invece schieramento. Tutti
abbastanza compatti, e nessuno ha mai evitato di sedere accanto
qualcuno per simpatie o antipatie. Insomma, un clima professionale. A prendere la parola per primo è ovviamente lo psichiatra per le
comunicazioni prioritarie, e tutti si ascolta con attenzione. Difficilmente quest’ultimo risultava incomprensibile: anzi era molto
chiaro e diretto in ciò che aveva da dire, sia sugli utenti che sulle
attività. A volte si poneva anche come mediatore dei dibattiti nascenti, quando
non gli squillava il telefonino. Lo psichiatra è anche colui che ha l’ultima parola, nel senso che più
volte gli si chiede alla fine conferma di quanto deciso, onde evitare
malintesi. Quindi prende la parola il coordinatore infermiere per esporre i casi e
singolarmente, a seconda delle referenze delle attività e dei pazienti ( solitamente
un educatore ed un infermiere lavorano insieme come referenti di
particolari attività o progetti sugli utenti), si interviene per mettere
al corrente il gruppo degli
accaduti. Il dibattito è abitualmente democratico, a parte casi particolarmente
fastidiosi da affrontare, come i pazienti “ difficili”. Difatti direi che se all’O.d.G c’erano dei casi difficili, si
partiva già con un’atmosfera più tesa. Pertanto a determinare il clima
della riunione danno una mano anche i pazienti. L’ultima parte della riunione è sempre la più confusa: tutti
vorrebbero intervenire, spesso si instaurano fastidiose ,ma simpatiche,
conversazioni parallele ,perché ognuno possa finire di esporre il proprio
pensiero. Raramente si finisce prima dell’ora stabilita ( è successo solo
durante una partita della nazionale italiana ai mondiali di calcio!). Per prendere la parola a volte, ma non sempre, bisogna stare con il
braccio alzato per un’ora; in ciò, nell’ultimo periodo, il ruolo di
referente degli educatori mi ha avvantaggiata, perché avendo preso i “
gradi” potevo essere ascoltata prima di altri, mentre ricordo che
all’inizio avevo persino paura ad aprire la bocca, per timore che
nessuno mi ascoltasse. Solitamente chi è nuovo nel servizio, effettua un periodo di
“studio” prima di intervenire nelle riunioni, e, quando comincia a
farlo, lo fa costruendosi piccoli spazi. Purtroppo a volte non si riesce, sempre per problemi di tempo, a dare
spazio a tutti gli interventi, anche perché non tutti riescono ad essere
chiari e concisi in quanto vogliono dire; per cui si assiste a lunghi
monologhi o sfoghi per mostrare il proprio disaccordo, che , a parer mio,
andrebbero calibrati, perché bisogna pur rendersi conto che si è in una
riunione di lavoro, e non ad una psicoterapia di gruppo, come potrebbe
essere intesa magari la Supervisione. E’ comunque un avvenimento molto “snervante”, perché tenere il
filo delle conversazioni è quasi sempre difficile,soprattutto perché
bisogna imparare, come dice la collega E.S., “ a dire ciò che si pensa,
in modo appropriato, altrimenti si rischia di essere considerati petulanti
o, ancora peggio, di perdere il lavoro. Mi è successo ad esempio,
durante le riunioni, di iniziare a parlare per poi perdermi in ciò che
dicevo, senza saper più bene cosa dire, e questo non credo per mancanza
di coerenza, quanto piuttosto per la tensione di avere tanti occhi puntati
addosso che sono in attesa di capirti, o contraddirti. Al termine della riunione il medico, lo psicologo e altri eventuali
ospiti ( ass. sociale, tirocinanti ecc, ecc.) generalmente vanno via,
mentre il resto del gruppo si riunisce per la pausa caffè, che in
sostanza è un post-riunione molto ricco di scambi, dove, chi non è
riuscito prima, dice la sua, e senza mezzi termini, tanto non si viene
verbalizzati in quelle occasioni! Questo post- gruppo è anche un modo per scaricare
le tensioni accumulate nelle due ore precedenti, perchè riuscire
ad interagire con tanti e
tutti insieme, è a volte arduo. Il
passaggio di informazioni non avviene dunque solo nei momenti
istituzionalizzati come tali, ma anche al di fuori, perciò è importante
“l’ascolto” dell’intera dinamica. Dopo la riunione c’era un ulteriore passaggio di consegne tra i cambi
turno, e si creava a volte tanta confusione! Durante i cambi orali si notano delle forti particolarità
nell’inversione dei luoghi e delle scenografie: l’occupazione dello
spazio, l’orientamento del gruppo, la sua focalizzazione, il modo di
prendere la parola, tutti questi elementi contribuiscono a disegnare scene
ben distinte del servizio. Inizialmente , come gruppo, si tendeva ad affettuare “le consegne”
in ufficio o nell’infermeria, e comunque la dove il paziente non potesse
ascoltare. L’invadenza dell’utente, con il quale si sta già a
contatto per tutto il giorno, infatti, limita non poco l’espressività
di chi sta parlando, e nell’ultimo periodo si stava lavorando proprio su
come arginarla, in modo da poter confrontarsi, nei minuti di cambio turno,
con la dovuta “ pace mentale”. Ciò che ho notato, con curiosità ,è che, mentre in alcune situazioni
era il collega smontante a stare in piedi, e quello in arrivo a sedersi
per prestare attenzione a quanto riportato, in altre accadeva il
contrario. Tendenzialmente ho interpretato la cosa in base alle caratteristiche
personali di ognuno. Alla fine, ci siamo resi conto, inoltre, che gli scambi non avvenivano
più solamente nell’ambiente isolato, ma la frenesia dell’informazione
passata a tutti i costi, ci vedeva conferire anche durante il pranzo o la
cena, nel corridoio, accompagnando il collega all’uscita ( anche alla
macchina), o quando ci si incontrava al bar ( quindi anche fuori
dall’habitat professionale in senso stretto). La durata dei cambi turno è molto variabile, la partecipazione anche. In talune circostanze siamo stati persino “sgridati”, ad esempio
dalla nuova coordinatrice, di soffermarci troppo a parlare, parlare,
parlare! E forse è vero che
piuttosto di mille parole, andrebbe bene anche dire con i fatti. Un altro momento di scambio collettivo,di cui prima accennavo e che
a parer mio è importante se fatto bene, che tra l’altro oggi va
molto di moda nei
servizi e nelle équipe pluridisciplinari, è la Supervisione
, il cui scopo è l’analisi del lavoro del gruppo
degli operatori, relativo ai casi più difficili, ma anche alla
gestione dei conflitti, cui dedicherò successivamente un paragrafo, che
si creano nel gruppo- curante. Proprio per questo è chiamato a condurre questa missione un mediatore
non facente parte del gruppo di lavoro; solitamente è uno psicoterapeuta,
esperto in psicosi, gruppi e istituzioni. La supervisione nella mia équipe era invece condotta da una psichiatra
del dipartimento, il che ha sempre suscitato alcune perplessità,
soprattutto tra gli educatori, che diffidavano dell’obiettività delle
sue interpretazioni, visto il coinvolgimento nell’istituzione. Un’altra caratteristica della supervisione è l’assenza
“forzata” del capo dell’équipe, lo psichiatra responsabile della
CT, in quanto considerato elemento condizionante e inibente per il resto
del gruppo, il che dice molto sui meccanismi che si innescano durante i
confronti di gruppo. Insomma bisogna dire che i momenti di scambio, possono essere
considerati dal punto di vista delle funzioni pratiche e simboliche,
nell’ordine operativo e semi-operativo, come attività di confronto, di
interpretazione, di valutazione, di decisione, di programmazione, di
anticipazione e di formazione e dal punto di vista sociologico e
psicologico, come mezzo per una visione del collettivo, come strumento di
controllo e giustificazione e come espressione delle emozioni di lavoro. Lo scambio gioca un ruolo di arricchimento reciproco di esperienze: e
quando questo è collettivo e si sviluppa nello spazio del pubblico
servizio, da modo di esprimersi come gruppo con una propria identità,
vedi il post-riunione di gruppo che ormai è sacro quasi come la riunione
stessa. Non nego che lo scambio può diventare anche occasione di scontro o
comunque di incomprensioni. Un episodio, che mi ha lasciato molto
riflettere, risale alla scorsa primavera: ero appena tornata in Comunità
dopo una quindicina di giorni dedicati alle sessioni d’esame
all’università. E’ un venerdì mattina; al mio arrivo trovo sulla scrivania dei moduli
che gli educatori avrebbero dovuto compilare, firmare e consegnare al
coordinatore infermiere, anche questo avvicendatosi qualche mese prima,
Franca DP. Ho chiesto quindi ai miei due colleghi in turno quel mattino, E.B. e
D.R., cosa fossero quei fogli. La risposta, vaga da entrambi, è stata che
li avevano portati in comunità i gestori della cooperativa dei servizi
interni alla struttura ( mensa, servizi ausiliari ), e che bisognava
appunto restituire compilati con una breve crono storia professionale e
con l’autorizzazione al trattamento dei dati personali. A quel punto il mio compito era quello di contattare il coordinatore
educatori per informarlo ed eventualmente avere l’autorizzazione da
parte sua a compilare quei fogli. Sembra strano, ma anche per riempire un semplice pezzo di carta, bisogna
fare i conti con un’iter comunicativo di passaggio da far
paura! La risposta del mio coordinatore, S.M., è stata quella di non compilare
assolutamente nulla fino a
quando lui stesso non avesse visionato il tutto. A ciò, aggiunge di passare l’informazione ai colleghi dell’équipe
operante nella CT al piano superiore al nostro. Come da consegna vado su dai colleghi per informarli del colloquio
telefonico sostenuto qualche minuto prima con S. In ufficio c’era buona parte dell’équipe educatori, ma anche Franca
DP, che coordinava entrambi le comunità. Per non disturbare il loro lavoro, mi sono fermata sulla soglia e,
velocemente, senza ritenere opportuno chiamare in disparte la referente
educatori per riferirle su quei moduli, ho passato l’informazione a
tutti i presenti. Avevo appena finito di parlare, quando F., interviene, con tono
abbastanza alterato, riferendo che i moduli li aveva lasciati lei sulle
scrivanie e che avrebbe riferito in riunione sul motivo per cui andavano
compilati e firmati. Non era
una cosa che doveva decidere il coordinatore educatori, ma andava gestita
all’interno dell’équipe. A quelle affermazioni non ho risposto assolutamente nulla, anche perché
non avevo gli elementi per farlo: mi ha solo turbato il tono con cui F. ha
ribattuto,secondo me poco opportuno vista la leggerezza
dell’informazione e visto che si affrontano problemi più grandi
tutti i giorni. Di conseguenza ho solo spiegato alla stessa che ero appena rientrata e
che l’informazione che mi era stata data era diversa. Ma visto il
malinteso, mi sarei occupata io stessa di risolvere con il coordinatore
educatori e che rimandavamo alla riunione i successivi chiarimenti sul
materiale. Tornata in CT ho riferito ai colleghi il tutto, ancora perplessa per
l’accaduto. Quindi ho preferito segnalare per iscritto sul diario
quotidiano la corretta informazione, in attesa delle indicazioni per la
compilazione. Quello stesso giorno F., è venuta a parlare con me per spiegarmi la
funzione di quei sacrosanti moduli[3],
ed allo stesso tempo voleva in qualche modo scusarsi per non aver avvisato
anche gli altri, lasciando solo fogli volanti sulla scrivania, di cui
nessuno sapeva nulla, e che hanno lasciato spazio a svariate
interpretazioni. Analizzando l’accaduto, mi viene subito da dire che l’errore sta a
monte, nel passaggio dell’informazione, in modi e con elementi diversi,
ma nessuno forse, corretto. C’è stata una leggerezza di F., ma anche mia che, rientrata in quel
momento, non ho approfondito la ricerca delle informazioni e mi sono
affidata alle prime voci di corridoio. Tutto sommato, l’argomento in questione non era di importanza
rilevante ai fini del nostro lavoro, ma come questo, sono tanti i passaggi
inesatti delle informazioni, o le comunicazioni distorte che creano
piccoli e grandi disagi, a volte sentimenti di rivalsa perché questo o
quell’altro collega non hanno scritto cosa c’era da scrivere o perché
mi ha risposto con un tono poco disponibile. A posteriori mi rendo conto che è abbastanza elementare individuare il
gap comunicativo, almeno nell’episodio appena descritto, anche se non so
quanto la mia interpretazione possa essere scevra da condizionamenti,
essendone coinvolta in prima persona. Tuttavia a volte basterebbe fare tesoro di situazioni così, che non
compromettono di certo l’intervento su un paziente, ma oscurano prima, e
poi schiariscono, se ben coltivate, le dinamiche interelazionali nel cast
di operatori. Questi scambi sono occasioni di discussione, di confronto, di
elaborazione di esperienza, di interrogazioni sulle decisioni
d’intervento. Ma anche
istanza di giustificazione delle azioni di ciascuno e del gruppo,
giustificazione necessaria nel nostro mestiere, dove la responsabilità
permanente di fronte all’utenza e l’interdipendenza delle azioni
tecniche, obbligano ciascuno a rendere conto presso un collettivo. Rispolverando
un po’ di teoria si possono individuare tre modelli di scambi nei
servizi:
Questi stili di scambi appaiono poi in coerenza con lo stile
organizzativo, che indica più generalmente la personalità del servizio,
e cioè la maniera di ripartire il lavoro, di pianificarlo, il modo di
intervento del coordinatore, i rapporti di inter-équipe, tutti elementi
che emergono a seguito delle attività, delle riunioni ecc, ecc. Qualsiasi cosa possa minacciare dunque la riorganizzazione del tempo di
lavoro, i momenti di scambio si rivelano degli istanti estremamente
preziosi, e non soltanto per la continuità dell’informazione, ma altresì
per la coesione dell’équipe, per la divisione e il confronto dei valori
di lavoro e delle regole del mestiere e per la riflessione sulle condotte
e sugli sviluppi di alcuni saperi. In ultimo bisogna sottolineare che il confronto del collettivo durante
gli scambi, evita qualsiasi personalizzazione del lavoro e permette di
rendere il più obiettivi possibili i punti delicati realizzati dalla
coordinazione: non solo, suscita riflessioni e permette le espressioni del
non detto. Insomma, potrei concludere, in merito alla scambio, che questo fa si che
l’équipe esista e si identifichi come tale,senza come né perchè,
meglio ancora che durante la riunione d’équipe. |