INDICE CAPITOLO V Confronto tra stili comunicativi delle figure dell’équipe
Esiste un gergo per questa équipe?
Emerge un modello di comportamento condiviso?
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CAPITOLO
V
Conclusioni
dell’indagine
Confronto tra stili comunicativi delle
figure dell’équipe
L ’indagine da me
condotta e il racconto della mia esperienza, portano alla conclusione che
gli stili comunicativi presenti
nell’équipe di cui ho fatto parte, erano sicuramente diversi. Per stile comunicativo intendo in questo caso il modo di entrare in relazione con un gruppo di lavoro
composto da varie professionalità, ognuna con delle peculiarità anche
caratteriali, di cui bisogna tener conto. Lo stile comunicativo di riferimento per ogni membro dell’équipe, è
ovviamente quello “tipico” del suo ruolo: di mediazione -
introspettivo, cioè molto diplomatico ma diretto, quello del responsabile
medico; pratico- utilitaristico, per l’appunto, quello ,in generale,
infermieristico; provocatorio quanto basta e passionale quello educativo;
d’analisi e coadiuvante quello psicologico. Tutto ciò si evince dal confronto stesso delle parole dei singoli
intervistati, non a caso, uno o quasi , per ogni tipologia di lavoro. La presenza di stili diversi, a domanda e risposta diretta, è percepita
da tutti, ed anzi, è vissuta come elemento
scontato di ogni gruppo di lavoro. Come fonte di conflitto, ed allo stesso tempo di crescita. Ovviamente, ribadisco, ogni équipe è unica nel suo essere tale, e mi
vien da dire che molto probabilmente, gli stessi personaggi, osservati nel
contesto di un'altra
situazione lavorativa, si porrebbero con altri personalissimi stili
comunicativi, perché la componente individuale, caratteriale, di ognuno
è sicuramente determinante . Esiste un gergo per questa équipe?
Alla domanda “ esiste un gergo
per questa équipe?” fa eco la risposta, spontanea dopo quanto detto
sopra, di sì. Il gergo in questione non è fatto solo di parole tipiche o atipiche
della mia o delle altrui professionalità. E’ un singolare modo di comunicare , in cui le diversità si fanno
parte di un tutto , e questo “tutto”
comporta un “modus operandi”
specifico della situazione. E’ un modo di comunicare in cui “...logicamente
ci si sente in dovere di dire la nostra”, M.P., non andando contro
la gerarchia, consacrata come tale, ma neppure
viaggiandoci a braccetto. Non è qualcosa di definito o definibile, è un incrocio, non solo di
“educhese” o di linguaggio
medico, vedi la “...fisiopatologia
dell’organizzazione...” di PC.DP, ma di caratteri, temperamenti,
modi di vivere e di arricchire i confronti. E’ un cercare di mettere
l’accento sia sull’analisi che sui contenuti pratici, non lasciando al
singolo l’arduo compito di decidere l’intervento sul paziente, ma
condividendolo. Ciò ha comportato naturalmente un notevole dispendio di energie, ma
alla fine si è riusciti a
diventare “forbiti”, ed allo
stesso tempo ad andare a ruota libera. Anzi, l’andare a ruota libera comportava in alcuni casi “l’eccesso
di parole”, ma anche questa è una caratteristica di questo gruppo, e
come tale può essere non condivisa, ma sicuramente accettata. Dalle parole di M.P, ma anche da quelle dello stesso medico, si evince
anche l’esistenza di due linguaggi di fondo, uno ufficiale ed uno
ufficioso, ma perché non unificarli in un unico e singolare modo di
porsi...con espressioni comuni e meno comuni, con scontri verbali e
capacità empatiche? Magari al di fuori del contesto specifico, le affermazioni e le azioni
gergali poste in atto, sarebbero risultate incomprensibili, ma alla fine
direi che l’importante era capirsi ed agire in tal senso. Emerge un modello di comportamento
condiviso?
Seppur criticando ,molto spesso, ognuno il comportamento dell’altro,
il fatto di aver “creato” un modo comune di intendersi in quasi tutte
le situazioni, dà risposta anche a questa domanda. Come prima accennato, infatti, il comportamento- tipo che sviluppa nel
tempo questo variegato cast di personaggi, ove non più importa da dove si
viene e perché, ma chi e come si è, è un modus
operandi , a volte un po’ confusionario direi, per cui si va
incontro a tutte le difficoltà, senza schivarle. Anzi, a volte ce le cercavamo proprio! Che le scelte venissero condivise o meno, è poi relativo. Nel corso del tempo, c’è sempre stato un “caso clinico”, una voce
fuori dal coro, persino quando si credeva nella possibilità
dell’unanimità. E poi c’è sempre la “gerarchia”. Insomma abbiamo accettato di per sé, in modo “condiviso”, di essere un’équipe, per definizione “ribelle”,
o “controcorrente”, o ancora “espulsiva”
( secondo alcuni, nei confronti dei pazienti “difficili”, adottavamo
degli atteggiamenti inizialmente spigolosi, accentuando la difficoltà
dell’intervento), ma fondamentalmente questo non ci offendeva, anzi, è
stato uno stimolo in più, nonché motivo di rabbia, ed a volte di
sconforto. La nostra fortuna è stata la spontanea attivazione del meccanismo del
“rattoppo”, cui accenna A.B.,che
ha innescato l’appoggio indifferenziato tra tutti gli operatori, in nome
di una lotta comune contro il conformismo, di cui troppo spesso siamo
stati vittime. Etica e comunicazione
Esiste
un problema di etica della comunicazione nell’équipe curante? A
questa domanda risponderei di sì, ma sottolineando che non intendo per
problema etico, un problema deontologico. E
non è neppure un problema nel senso stretto del termine. E’
un aspetto, anche questo, dei meccanismi che si innescano quando si forma
un gruppo di lavoro. Per
etica, in questo contesto, intenderei la “scelta” che opera l’équipe. E
quest’équipe ha assunto un modello etico che è diventato norma,
pratica: l’andare contro. Si
è insomma cercato di mettere in atto un modo di comunicare che
rispondesse al rispetto dei principi di autonomia e di autodeterminazione Questi comprendono il rispetto per la dignità ed il valore di tutte le
persone coinvolte, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione
ed alla decisionalità di ogni operatore, nel rispetto della diversità
dei valori e delle priorità, con
un’attenzione particolare alla verità nel costruire una relazione di
fiducia che sta alla base di ogni alleanza terapeutica, perché il lavoro
terapeutico dell’équipe, a mio avviso, non va destinato
unidirezionalmente al paziente “bisognoso”, ma deve fungere da
auto-mutuo-aiuto per tutta l’équipe, in orizzontale ed in verticale. Obiettivo di fondo, inconsapevole, quanto utopico, di queste scelte di
azione e comunicazione, era forse quello di mettere tutti noi operatori in
grado di assumere in prima persona le decisioni che riguardano il nostro
lavoro ed in nostro intervento sull’utenza, non “lasciandoci” soli
di fronte ad un bagaglio indecifrabile di notizie, “ma
accompagnandoci” in un dialogo aperto e dedicato, che impegna
profondamente tutti i soggetti coinvolti nella relazione comunicativa. Un’ultima riflessione spetta proprio all’altro soggetto della relazione comunicativa, il paziente,
perché i personaggi del gruppo- curante, affrontano in primo luogo, ogni
giorno, non solo la
relazione, la comunicazione o la cooperazione tra di loro, ma anche il
vivere con l’utenza, con la quale, per forza di cose, si instaura un
legame che va, e deve andare, oltre il trattamento diagnostico-
terapeutico della patologia. L’area della comunicazione privata della relazione medico- paziente,
di per sé, investe un ambito specifico, sulla quale, negli ultimi anni,
si è ampiamente trattato e dibattuto. Tuttavia, argomentando sulla valenza etica dei comportamenti
comunicativi di questa équipe, bisogna tener presente che questi, hanno
un senso, in quanto nascono, si sviluppano e vengono condivisi, intorno al
caso clinico, intorno a quell’ “Angeleri
Giuseppe” ( nome di fantasia),che fa sì che l’équipe stessa
esista, con un preciso mandato, non salvifico. Durante i confronti, è emersa in proposito, la convinzione, ampiamente
condivisa da tutti gli operatori, di lavorare non solo per il Giuseppe Angeleri
della situazione, ma altresì con
lui, tenendo presente che il fine dei nostri interventi, non è solo il
benessere o lo sviluppo degli individui stessi, nei contesti
dell’assistenza sanitaria, quanto anche il riconoscimento del ruolo e
dell’importanza che le relazioni e le comunicazioni hanno per
quest’ultimo. Posso dire che il modello di comportamento che quest’équipe ha adottato, risulta da una spontanea ricerca di un trait d’union tra un’etica liberale ed una comunitarista della relazione con il paziente, con il fine di salvaguardare il diritto degli individui a far valere la proprie idee. Nel contesto proprio d’intervento della mia équipe, bisogna tener
conto del fatto che il paziente non era
sempre in grado di “ costruire
piani personali di vita”[1],a
causa di compromesse capacità mentali ed emotive. Nonostante ciò, i presupposti intrinseci del nostro operato,
convergevano verso un intervento di aiuto e rafforzamento dell’autonomia
di Giuseppe Angeleri , ben
consapevoli dei frustranti limiti cui si andava incontro. Si è lavorato con l’intento di “ sconfiggere
la paura e l’ignoranza, prevenire e contrastare inganno, menzogna,
insincerità, manipolazione ed occultamento delle notizie...per rimuovere
gli ostacoli e gli impedimenti alla comprensione dei protocolli e degli
atti medici, accrescere i livelli di comprensione e di
consapevolezza...”[2]
se non nell’utente, almeno in chi per lui assumeva le decisioni; e molto
spesso negli operatori stessi, che in circostanze specifiche ,si trovano a
dover fare ciò, non essendoci nessun altro ad averne l’interesse. Questo ha fatto sì che l’intero gruppo di lavoro, chi più chi meno,
ognuno con le proprie inflessioni caratteriali, si legasse a Giuseppe,
ma parlare ,in senso etico, di un legame di amicizia, di cui sostiene la
possibile esistenza l’etica
liberale, in virtù del ruolo e dell’importanza che le relazioni e
la comunicazione hanno per i pazienti, mi sembra eccessivo. Sicuramente un legame affettivo, umano, empatico; tutti elementi che,
ribadisco, sono alla base delle nostre professioni, delle nostre missioni
accanto allo svantaggio, fisico o psichico che sia. In ultimo, presupposti teorici di origine biomedica, legati ad un
tentativo di mediazione tra l’etica liberale e quella comunitarista,
ricordano che ciò che conta, nei processi comunicativo- relazionali,
non è tanto il comunicare in quanto tale, ma le scelte che ne
conseguono, e suggeriscono di considerare la comunicazione stessa, come
mezzo atto a favorire processi di crescita individuali più appropriati. Azzarderei insomma nel pensare ad una comunicazione quasi come “strumento
terapeutico”, sia per il singolo paziente, che per il gruppo, anche
quello curante. E la scelta, inconsapevole o meno, di essere un gruppo connotato da una
forte valenza affettiva, ha permesso sia a me, ma credo ad ognuno di noi,
che a testimoniare che tutto il lavoro fatto nel tempo, le valutazioni,
pro e contro Giuseppe, gli
scontri e gli incontri, non è stato proprio
tutto sbagliato, dal momento che ogni qualvolta ci si ritrova,oggi,
a distanza di quasi un anno dalla conclusione di questa esperienza,
Giuseppe
ha ancora il sorriso nel rivederci, Giuseppe
ci corre ancora incontro, Giuseppe
ci chiede ancora un aiuto. Questo è personalmente il ricordo “ vissuto” più bello che mi
porto dentro, perché Giuseppe
mi fa capire che tanti sforzi hanno giovato ad una buona causa. Questo racconto, etico
e comunicativo, della mia esperienza, è, come preannunciato
all’inizio, sicuramente esposto con una forte connotazione soggettiva. Mantenere l’obiettività di fronte ad un “avvenimento di vita”,
come è stato per me il far parte di questo gruppo, posso garantire che
non è stato semplice. Non voglio presentare un quadro idilliaco di quello che comunque è
stato un ambiente professionale,
come può essere un’équipe di lavoro, tanto meno dare una valenza etica
assoluta degli avvenimenti comunicativi. Tenendo conto delle esperienze fatte dopo, ho cercato solo di raccontare
la storia di un bel gruppo, nato e cresciuto dal nulla. E chissà quanto ancora avrei da dire se tutto ciò fosse andato avanti. Chissà .....,l’importante è averci creduto. |