Musica ON

Musica OFF

INDICE CAPITOLO III

Contesto cooperativo e coordinazione. 74

Coordinazione delle figure professionali durante l’attività. 84

Momenti di scambio collettivi 93

 

 

CAPITOLO III

Applicazione del metodo ed osservazione in situazione

 

 

 

Contesto cooperativo e coordinazione.

 

Per contesto cooperativo si intende il contesto del lavoro di gruppo, dando per scontato il senso della collaborazione tra le figure.

La dimensione collettiva del lavoro oggi è infatti pienamente riconosciuta, anche in psichiatria come abbiamo visto.

In senso generico invece la coordinazione designa l’accordo di più funzioni distinte, ma complementari.

Dall’originario significato fisiologico sono derivate analogie psicologiche, sociologiche ed amministrative.

In senso sociologico si parla di coordinazione per indicare la funzione direttiva che si esplica nel guidare altrui attività, aventi un proprio margine di iniziativa originale e non strettamente subordinate.

La comprensione del lavoro non può quindi essere soddisfatta dall’analisi delle azioni individuali: essa mette in gioco i rapporti tra queste azioni.

E’ dalla circoscrizione di un collettivo di lavoro “coordinato” che inizia il mio percorso di osservazione e registrazione: questo collettivo è rappresentato per l’appunto dall’équipe in cui ho lavorato negli ultimi anni, un gruppo di persone con cui ho vissuto giorno per giorno,di cui ho imparato a scoprire lato professionale e lato umano (sensazione inevitabile dell’esperienza etnografica).

Il gruppo di lavoro in questione, ha faticato non poco prima di comprendere e circoscrivere i cosiddetti principi del “ fare insieme” adatti al nostro contesto.

Difatti è stato un cast che è cresciuto insieme dall’ esordio.

Solo tre figure dell’équipe storica sono rimaste nell’organico al momento della sua ridefinizione: quella del responsabile medico , di un infermiere e della psicologa di comunità.

Il resto si è definito nel giro di  circa sei mesi, come già accennato e descritto nel Cap.I .

Al ceppo stabile si sono aggiunti nel corso dei miei tre anni di esperienza, un’altra psicologa, che gestisce un gruppo di una sorta di psicoterapia ( Social Skill Training), vari tirocinanti, elementi del servizio civile volontario, ed un’altra psichiatra di riferimento.

Si è ridefinito anche il mio ruolo, in quanto, come detto en passant, promossa a “referente” del gruppo educatori dopo circa un anno, e dovendo così gestire ,in piccolo, la coordinazione del gruppo educativo, con tutto ciò che essa comporta, ovvero turnazioni, incarichi, ecc.ecc.

Si è trattato dunque di costruire una nuova catena di attività, un nuovo sistema cooperativo al cui interno ciascuno avesse un’appropriata autonomia d’intervento, ma parziale in funzione a quella di tutta l’équipe.

Questo processo è delicato da analizzare e, anche per circoscrivere meglio le condizioni dell’efficacia collettiva, ho deciso di effettuare lo studio della comunicazione nel lavoro, consapevole delle difficoltà che a volte si incontrano nell’intersezione di linguaggi diversi, ma allo stesso tempo complementari, e quanto questa difficoltà possa creare delle incognite nella coordinazione di tutte le attività.

 

Una delle peculiarità di rilievo nella coordinazione dell’équipe e che, contrariamente alle situazioni di collaborazioni “classiche”, in questo caso il gruppo di lavoro non è fisicamente riunito sempre nello stesso luogo e nello stesso momento, a parte qualche eccezione.

Per ciò è importante l’esplorazione della dimensione collettiva attraverso un’osservazione ravvicinata.

La cooperazione all’interno del gruppo si rivela un’arma importante per portare a termine il progetto individuale di ogni utente e non solo: può  portare i membri dell'équipe a riscoprirsi reciprocamente solidali e aventi la volontà di coltivare nessi motivazionali.

Nel caso poi di un’équipe di tipo socio-sanitario che opera in un ambiente più circoscritto di un ospedale,come la Comunità Terapeutica, ma che presenta le stesse difficoltà di gestione,in quanto suo surrogato,la coordinazione è un problema cruciale, e prevede un doppio impegno: uno, informale, in ogni momento del lavoro, a seconda delle circostanze e delle esigenze delle attività .L’altro, come supporto all’unione del gruppo ed al passaggio di informazioni specifiche.

Un’ottimale dimostrazione di funzionalità e coordinazione del lavoro d’équipe ritengo sia la miglior carta da giocare per acquistare credibilità all’esterno.

Tutti operatori potranno infatti, se in grado di individuare obiettivi comuni e mantenere alto il grado di controllo sull’operatività della CT, assumere un ruolo di stimolo e di costante confronto con i livelli tecnici, politici e istituzionali, chiamandoli, come è già avvenuto in passato  attraverso la denuncia di episodi di abusi e di uso improprio delle risorse, a rispondere pubblicamente del disinteresse, delle connivenze diffuse e,più complessivamente, della situazione di sfiducia in cui versa parte del sistema pubblico dei servizi di salute mentale.

La cooperazione, non solo tra le singole figure professionali di un’équipe, ma anche tra le équipe di tutti i servizi territoriali,è strumento basilare per dare inizio ad un nuovo periodo in cui si stringeranno alleanze per sviluppare collaborazione.

La creazione di un contesto di positiva collaborazione, non dipende ovviamente solo dai responsabili o dai vertici della gerarchia sanitaria, che a tutti gli effetti esiste, anche se negli ultimi anni si è annichilito un po’ il clima di sottomissione che predominava in passato il lavoro nel campo.

La dimostrazione di un’effettiva cooperazione è opera di tutti i personaggi dell’équipe e deve mostrarsi nel suo essere sin dall’inizio, dalla considerazione del  sofferente psichico, della sua storia, del suo contesto e della progettualità di vita della persona stessa.

La carenza in queste aree negli anni scorsi ha fatto si che la “fama” dell’istituzione riabilitativa non fosse proprio superlativa: si sono registrate situazioni organizzative molto precarie e clima pessimo nel rapporto tra gli operatori a tutti i livelli,con gravi danni alla professionalità ed alla dignità di tutti loro.

Il  tutto con conseguente ripercussione sul trattamento delle persone che necessitano dell’ assistenza psichiatrica.

Tutt’oggi in alcuni casi mancano accoglienza, ascolto, informazione, lavoro d’équipe e, nota dolente, personale. Il problema della carenza di organico tra l’altro non è stato mai veramente affrontato e pertanto mai risolto.

Anche i collegamenti tra i vari servizi interni ai DSM cui appartengono le CT sono in taluni casi limitati.

In questi casi l’operatore, pur di far fronte alle situazioni difficili, si carica di un dannoso ed improduttivo stress; si chiude dietro l’atteggiamento mentale della difesa del paziente sofferente.

Il manicomio sta così nella testa dello stesso operatore, il quale costruisce dentro di sé le barriere necessarie per non entrare nella sofferenza dell’altro, temendo di diventarne portatore egli stesso.

E se la carenza di cooperazione e coordinazione all’interno di una sola équipe può provocare disagio, figuriamoci se la stessa si presenta a livello territoriale, tra i vari servizi.

Ci si troverebbe di fronte alla mancanza dei progetti individualizzati che coinvolgono paziente e famiglia, purtroppo a sua volta molto spesso disinteressata, verrebbero cancellati i possibili recuperi e vanificati quelli progettati; la riabilitazione psichiatrica verrebbe effettuata, come accade in alcune situazioni, in cliniche private che provano a farsi chiamare “Case di cura”, somigliandovi solo lontanamente,con ulteriore spesa di milioni di euro a danno degli utenti e della collettività.

Ragionare in termini economici non mi piace,ancora di più quando è in gioco la vita delle persone.

Ma mi rendo conto che a volte si sprecano risorse per semplici non curanze.

Tutto ciò non va sicuramente a favore delle tanto sospirate carriere degli operatori.

A volte l’équipe si barrica anche dietro le pratiche cronicizzanti, che rinforzano processi di segregazione e di esclusione degli utenti dalla comunità, e tutto ciò per l’incapacità di gestire le forze centrifughe al suo interno e dunque per l’assenza di un assetto organizzativo definito.

 Dietro le barriere si può presentare un quadro generale  caratterizzato da una estrema frantumazione del servizio e da una spiccata autoreferenzialità delle figure, con uno  scollegamento sia tra gli stessi servizi che tra i diversi operatori, i quali spesso sono completamente all’oscuro dei programmi e delle attività dei colleghi.

In questo modo possono scarseggiare anche le risorse umane riguardanti tutte le figure professionali di un’équipe, sia quella del medico che dell’educatore che dell’infermiere; e quando ci sono,queste vengono sfruttate per effettuare interventi finalizzati alla gestione della crisi e dell’urgenza psichiatrica.

Si trascura l’attività preventiva, curativa e riabilitativa che, secondo la legge 180 e le successive indicazioni normative, rappresenta la principale finalità di un sistema pubblico di servizi di salute mentale.

Prevalgono gli interventi individuali e i rapporti caratterizzati da distanza gerarchica tra i diversi ruoli.

In situazioni di carenza organizzativa e cooperativa ,gli interventi formativi sono poi diretti alle singole figure professionali e più che altro finalizzati all’arricchimento del curriculum personale; spesso sono anche incongrui rispetto alla funzione effettivamente svolta e lontani dall’operatività quotidiana.

Ne consegue che la gran parte degli operatori non è consapevole del ruolo che deve esercitare ed è sprovvista di strumenti efficaci per gestire i pazienti gravi e per promuovere processi di guarigione.

 Pertanto gli interventi sono effettuati all’insegna dell’approssimazione, del buon senso dell’uomo della strada e segnati da atteggiamenti improntati al pietismo, al pregiudizio e al pessimismo sulle possibilità di miglioramento.

In molti inoltre, si rifugiano in compiti esclusivamente esecutivi, effettuati passivamente e senza una reale motivazione, quasi sempre finalizzati o ad una mera accoglienza o a generici  contenimenti basati su  relazioni episodiche e  afinalistiche.

La carente cooperazione tra le varie figure trasforma la CT in un grande caos ,dove tutti corrono su e giù senza nessi ,e produce scontri tra le stesse.

Questi  scontri “professionali” finiscono col ripercuotersi sul paziente, il quale non viene “studiato” come meriterebbe, e pertanto si rischia col diventare, come spesso ho sentito ripetere, un’équipe espulsiva, con prevalenza di atteggiamenti di attesa nei confronti dei pazienti

Negli ultimi 20 anni poi,le scelte politiche hanno rinviato troppo a forme organizzative che riproducono istituzionalizzazione, frammentando i servizi e impedendo protagonismo, centralità, cittadinanza, integrazione ed emancipazione delle persone.

 Ma nonostante questo sono da riconoscere dei cambiamenti, dovuti all’impegno, non in senso eroico, di molti di noi operatori, i quali hanno cercato di accorciare le distanze e migliorare la “comunicazione” fra i servizi e fra il personale operante, coscienti dei limiti di efficacia che questa carenza comporta.


Coordinazione delle figure professionali durante l’attività

 

 

Gran parte delle difficoltà di organizzazione e coordinazione, e quindi di comunicazione, si manifestano nell’ l’attività quotidiana, durante la quale, noi, come personale curante, siamo frequentemente portati a regolare varie questioni.

Per cogliere questi scambi, siano essi formali o informali, programmati o occasionali, sovente rapidi e carichi di implicito,e anche per cogliere in totem la frenesia dell’attività nel gruppo di lavoro, è stata per me fondamentale la permanenza nell’équipe, sia come operatrice che come osservatrice.

Di recente, in proposito, ho avuto modo di leggere un testo[1] che riporta il viaggio intellettuale e fisico dell’autore nel mondo della tossicofilia, come strumento per descrivere e comprenderne meglio le dinamiche, non vincolato ad un criterio troppo rigido e strutturato.

L’autore si è perciò calato nel ruolo, considerandolo il metodo di analisi  più efficace per problema della tossicodipendenza da eroina, ed in una particolare dimensione in cui ha svolto l’osservazione.

Ciò dimostra l’importanza del calarsi nel ruolo e nella situazione: condivido appieno in questo senso l’essere attori tramite se stessi e non tramite altri. 

Nel mio caso l’osservazione partecipante è stata più spontanea,meno programmata.

Essendo  membro a tutti gli effetti dell’équipe inoltre, sarebbe stato palesemente chimerico seguire simultaneamente tutte le attività, le azioni incrociate, le interconnessioni: ho dovuto per ciò trovare un filo conduttore, definire dei margini e delle direttive, “studiare” le tecniche per capire in ogni momento ciò a cui si andava incontro come gruppo e come singolo, anche se poi le informazioni arrivano sempre tramite le cosiddette “vie traverse”.

Tornando alla coordinazione in senso stretto, quella di un’équipe di CT spetta al responsabile medico al seguito del quale lavora il coordinatore della CT stessa che, nel caso della realtà sanitaria in Piemonte, è un infermiere.

Il coordinatore agisce nel lavoro di gruppo, orientando, assistendo, concludendo, senza tuttavia sostituirsi  ai collaboratori.

Ma non è finita qui: al fianco di quest’ultimo c’è anche il coordinatore dell’équipe educatori in forza al servizio,assunti tramite cooperativa sociale per aggiudicazione d’appalto( gran parte dei servizi educativi territoriali in Piemonte ed in Italia sono in mano al privato sociale, purtroppo o per fortuna ancora non si sa!), e c’è anche un referente di gruppo tra gli educatori, me, nel caso specifico.

Al di sopra di tutte le nostre teste, troviamo il coordinatore dell’area comunitaria, ed ancora di più il primario del DSM.

Insomma ,tanti coordinatori dividono lo scettro, ma non è detto che sia sempre tutto coordinato.

Il lavoro dell’équipe vera e propria si svolge tramite l’interazione delle varie figure all’interno della struttura comunitaria e con i servizi territoriali quali appunto gli ambulatori, il day hospital ed il centro diurno ( che hanno a loro volta delle équipe stabili come quelle di comunità).

Si mantengono poi i rapporti con tutte le altre risorse del territorio, quali associazioni di volontariato, centri ricreativi, centri sportivi e riabilitativi che consentono di sviluppare l’intervento sul paziente a lungo raggio.

 Passando alla coordinazione organizzata vera e propria, c’è da dire che questa comprende  tutti i momenti di lavoro.

Come all’interno della struttura ospedaliera, si lavora su turni, ed anche far quadrare questi è un’impresa ardua.

I turni diurni sono ovviamente i più problematici, quelli notturni meno, anche perché sono affidati ad un’équipe di infermieri psichiatrici, direi anche vecchio stampo, che gestiscono da soli le proprie rotazioni, ma difatto fanno parte dell’équipe in senso stretto, gestendo gli stessi utenti della CT.

Lavorare con i turni prevede una coordinazione sistematizzata, attuata tramite un arsenale di dispositivi di informazione specifici.

Le informazioni che passano nell’arco della giornata sono centinaia e bisogna far si che queste arrivino integre, almeno si spera, ad ogni operatore.

Il soddisfacente funzionamento di un’équipe è il risultato di un lungo processo di interscambio e di condivisione di conoscenze professionali e personali, nonché di un graduale passaggio da un puro e semplice raggruppamento di individui e professionalità, all’operare come gruppo di lavoro in senso pieno.

Tutto il lavoro di articolazione che sta dietro l’organizzazione del gruppo  è molto delicato; esso dimostra la sua debolezza o la sua stabilità al momento dei rischi e degli incidenti, ma è alla routine quotidiana che bisogna ancorarsi.

Non è poi solo il lavoro nel singolo turno che caratterizza la giornata del singolo operatore o utente;è tutto l’insieme che rende efficiente l’organizzazione ed è anche per questo motivo che si sente il peso del lavoro in gruppo.

Perché ogni singola azione della giornata deve essere calibrata, e l’errore del singolo, nella maggior parte dei casi, diventa l’errore di tutti.

Coordinare e coordinarsi in questo senso non è per nulla semplice;nel caso dell’équipe mista c’è poi un’ulteriore incognita, che è quella delle competenze.

Se per inciso lo psichiatra cura l’aspetto terapeutico psico- farmacologico, l’infermiere quello di gestione dell’utenza dal punto di vista clinico e l’educatore dal punto di vista della relazione, in realtà poi tutti facciamo un po’ tutto.

Diciamo che non c’è una netta differenziazione di ruoli durante le attività della giornata, cosa sulla quale da anni si dibatte, soprattutto in quelle équipe miste nelle quali è presente anche la figura dell’Oss,o Adest o via dicendo, e che ancora non ha trovato una chiara soluzione.

Le attività risocializzanti e riabilitative vengono comunque seguite come referenti sia da un educatore che da un infermiere.

Per quel che riguarda la parte psico- farmacologia inoltre, sembrerà strano ma l’educatore gioca un ruolo importante, perché si ritrova ad essere mediatore  tra il medico “ prescrivente “, l’infermiere “ esecutore” e il paziente.

Quello della compliance al trattamento farmacologico è un altro scoglio durissimo della psichiatria, e va trattato con la dovuta sensibilità.

 Personalmente  non sono tra quelli che sostengono che il paziente psichiatrico si cura solo con la relazione, anche perché la relazione è praticamente inesistente se il paziente è in piena crisi psicotica; tuttavia il

“ saper prendere” il paziente per il verso giusto, quando si tratta di medicine, diventa strumento importante nel lavoro di tutti i giorni, e la figura educativa, in questo senso, è a mio avviso determinante.

Le attività della giornata sono poi molteplici; quello che è chiaro è che nonostante il grado di autonomia dell’utenza trattata, nel mio caso buona,questa va seguita passo passo.

E qui emerge il senso di maternage tipico di tutti i gruppi di lavoro che operano con soggetti in difficoltà.

Alcune caratteristiche del lavoro quotidiano variano altresì nel tempo;

se ci sono momenti di particolare tensione nel gruppo- utenti infatti l’équipe può scegliere di modificare il piano giornaliero in base alle “priorità”, e la stessa cosa vale per l’interazione tra il gruppo operatori.

Altre caratteristiche invece rimangono tali nel tempo, il che è molto importante soprattutto per l’immagine del luogo agli occhi del paziente stesso; ci sono infatti delle regole del vivere in comune di cui si tende a garantire il rispetto da parte di tutti, operatori compresi.

Per questo è stato elaborato una sorta di “regolamento”, termine usato in questo caso arbitrariamente, visto che non è un manuale di comportamento codificato, che serva da indicatore per le normali attività, quali orari per pranzo e cena, distribuzione dei soldi, divieti di fumo ecc, ecc.

“Partorire” l’idea del regolamento non è stato difficile quanto l’attuarla, poiché, nonostante il parere concorde di tutti noi operatori, lo psichiatra ha sempre titubato sulla effettiva necessità di tale strumento, perché di questo a tutti gli effetti si tratta, di lavoro .

Sicchè, prima di entrare in vigore, il “regolamento” ha subito numerose revisioni, nonché dibattiti sulla valenza educativa, per poi approdare ad una comune condivisione, compresa quella democratica dello psichiatra.

Tendenzialmente anche l’équipe operante cerca di attenersi alle “indicazioni sul comportamento”, in rispetto al principio che la regola è uguale per tutti, e anche questo a volte è un elemento di forti tensioni.

Essere capaci di organizzare la vita degli altri d’altronde non vuol sempre dire essere capaci di organizzare il lavoro dell’équipe in maniera impeccabile: esistono infatti situazioni o momenti in cui anche se l’organizzazione della vita in comunità appare minuziosa , l’équipe in se vive momenti ingestibili e viceversa.

Ribadisco a proposito della coordinazione delle diverse figure dell’équipe, che la differenziazione dei ruoli nelle attività e nell’organizzazione della CT è sottilissima, e la sinergia di gruppo funziona a dovere.

Tuttavia questa  si svela nei momenti di confronto, di progettazione e di impostazione terapeutica sull’utente, ed è in questi momenti che emergono le più sostanziali difficoltà comunicative.

Mi spiace non poter argomentare sul confronto dei ruoli per quel che riguarda la figura dello psicologo di comunità, una figura molto importante. Ma l’esperienza della mia équipe in proposito è un po’ carente, in quanto la psicologa che avrebbe dovuto seguire gli utenti era praticamente assente, e quando c’era, cioè nelle riunioni d’équipe, assumeva una funzione passiva.

Solo nell’ultimo anno di lavoro si è aggiunta al personale curante un’altra psicologa, con un ruolo specifico, che fortunatamente si è mostrata un membro di appoggio per gli utenti e per gli operatori, fungendo da figura di mediazione in alcuni scontri ideologici tra noi educatori e lo psichiatra   responsabile della CT.

Come si può evincere da quanto detto, l’organizzazione della vita e del lavoro in CT non ha un’impostazione eccessivamente rigida e ripetitiva come quella ospedaliera, direi  per fortuna.

Ovviamente ci sono delle attività che si svolgono quotidianamente e che prevedono interazioni e scambi tra operatori- utenti, operatori- operatori, operatori e territorio.

Insomma   il detto “ è bello perché è vario”  si addice alla situazione.


Momenti di scambio collettivi

 

I momenti di scambio in un’équipe sono numerosi e disseminati durante tutta la giornata di lavoro.

Il passaggio delle informazioni è fondamentale per lo studio del fenomeno comunicativo del gruppo.

Un momento importantissimo nella gestione del gruppo e delle informazione è quello del cambio turno.

Il cambio turno, che ha luogo quattro volte al giorno (alle 7,alle 14.30,alle 16.30 ed alle 22), si attua in due forme: una scritta ed una orale.

Durante l’arco di ogni turno, che dura circa sette ore e mezzo, gli operatori, siano essi educatori che infermieri, devono compilare una serie di moduli che attestano le attività svolte durante l’arco di tempo da ogni utente.

Non solo, la documentazione cartacea  da redigere  in ogni momento della giornata, non è la singola scheda nominale ( o dipartimentale ) di ogni utente, ma è ben spessa.

Altro strumento ufficiale di passaggio di informazioni scritte è il “Diario delle consegne”, in cui si registrano gli avvenimenti più importanti della giornata durante l’arco dei tre turni.

Ci sono ancora il “Diario delle attività”, nel quale ogni operatore deve annotare le attività svolte durante il servizio e con quale utente, e la “Cartella operatori di base” o “PEI” ,come si dice in gergo educativo, con annesso diario quotidiano dell’utente.

Insomma una serie di documentazione codificata consultabile e decifrabile dall’équipe, che serve di base all’organizzazione degli interventi e del lavoro.

Il cambio orale di informazioni avviene invece con modalità differenti, secondo il ritmo del giorno e secondo la possibilità che hanno gli operatori di riunirsi  per scambiarsi le informazioni dei casi.

In base alla mia esperienza devo dire che dipende anche da chi e con chi si effettua il cambio, perché alcuni operatori si limitavano a leggere il diario quotidiano, soppesando parola per parola di quanto scritto, o sollevando polemiche per quanto non scritto, mentre altri, me compresa, cercavano l’interazione, seppur breve con il collega, per scambiare impressioni e chiedere conferme.

In ciò ritengo che influisca molto il carattere di ognuno, perché chi è “affetto” dall’ansia del fare, non riesce a limitarsi all’interpretazione scritta, e tende a sapere dal collega cosa è stato fatto, quando, come e perché , durante l’arco del turno, in modo da poter continuare il lavoro intrapreso.

I cambi così intesi, orali e scritti, hanno ruoli diversi ma spesso complementari: “l’uno e l’altro sono necessari per comprendere il sistema di funzionamento e di informazione dell’équipe”[2] .

Difatti la parte scritta dei cambi, non è anonima, anzi, è spesso assortita di commenti e domande ai colleghi, perciò è utile indagarne la funzionalità.

L’ incognita della consegna per iscritto è la difficoltà di interpretazione che a volte si presenta, ed anche la superficialità con cui questa viene prospettata. Anzi, a volte bisogna “ pedinare” chi si dimentica di scrivere, anche solo le cose più importanti.

Pertanto i cambi orali, queste “recitazioni” fatte nella continuità d’azione, hanno il vantaggio di stabilire un nesso tra il luogo e gli avvenimenti, permettono che l’informazione venga trasmessa con certezza e soprattutto permettono di capire se il collega stesso che ti passa la comunicazione è d’accordo con quanto è stato fatto o bisogna fare, ad esempio provare a convincere un paziente a fare un’attività o viceversa.

Il cambio orale può essere limitato a due operatori direttamente concernenti, informale e rapido (mentre si beve il caffè dopo pranzo), direttamente operativo ( quando si richiama l’attenzione del collega appositamente), poco protetto dal resto del lavoro ( mentre si è in attività con gli utenti), ed è sottoposto a frequenti interruzioni ( il telefono squilla perpetuamente!), tipiche di ogni servizio e di uno schema di cambio collettivo.

Il contenuto tematico dello scambio è vasto, dal paziente, alle azioni degli operatori, alle attività lasciate in sospeso; “ ricordati di accompagnare A.A. dal dentista nel pomeriggio”, “ bisogna compilare le schede dipartimentali”.

E mentre la prima affermazione viene recepita subito come comunicazione di routine riguardo al paziente, la seconda, molto spesso, viene recepita come un ‘ordine’, perché non tutti concordano con la miriade di documentazione cartacea che bisogna compilare per mostrare all’istituzione che si lavora tanto, ma tanto.

Altro fondamentale momento di scambio orale e scritto, quello più ufficiale, è la “Riunione d’équipe”.

 La riunione ha luogo una volta la settimana, e vi dovrebbero presenziare necessariamente tutti i membri dell’équipe, in quanto unico momento di confronto generale, durante il quale si ufficializzano gli interventi attuati singolarmente o in gruppo dagli operatori, e unico momento in cui si possono progettare a grandi linee gli interventi futuri, sull’utenza e sul gruppo.

Le domande su questo rituale comunicativo sono diverse: qual è ad esempio il ruolo dei differenti partecipanti?, chi assiste a tutta la riunione?, chi è assente?, come sono posizionati i partecipanti?, quali sono le loro attitudini?, le conversazioni parallele?.

Questo fondamentale “avvenimento di parola” che è la riunione d’équipe o tutti i cambi orali, per riprendere il vocabolario dell’etnografia, implica dunque un’attenzione non solamente al contenuto del discorso, ma anche alle pratiche ed ai rituali.

Ecco  come si svolge generalmente la riunione d’équipe,tenendo presente che, proprio in quanto avvenimento, ha delle peculiarità che lo rendono unico di volta in volta, alternandosi casi diversi, con predisposizioni diverse.

La riunione si svolge il mercoledì pomeriggio dalle h 14 alle h 16.

 Oltre che avvenimento di parola è anche un avvenimento “sacro”, in quanto unico giorno della settimana in cui si ha la certezza, o quasi, che lo psichiatra venga in comunità per il passaggio delle informazioni.

Si svolge in sala riunioni, o in extremis nello studio medico.

Per prima cosa si stila l’ordine del giorno, di cui la prima voce è sempre “comunicazioni”, e poi vi si aggiungono i casi che bisogna affrontare, dai pazienti, alle attività.

Il tutto viene verbalizzato per iscritto, ovviamente, da un operatore, in un apposito quaderno.

La disposizione attorno alla tavola rotonda è curiosa: accanto al medico siedono sempre ,o quasi, il coordinatore infermiere e la psicologa di comunità.

Tra gli infermieri e gli educatori non c’è invece schieramento. Tutti  abbastanza compatti, e nessuno ha mai evitato di sedere accanto qualcuno per simpatie o antipatie. Insomma, un clima professionale.

A prendere la parola per primo è ovviamente lo psichiatra per le comunicazioni prioritarie, e tutti si ascolta con attenzione.

Difficilmente quest’ultimo risultava incomprensibile: anzi era molto chiaro e diretto in ciò che aveva da dire, sia sugli utenti che sulle attività.

A volte si poneva anche come mediatore dei dibattiti nascenti, quando non gli squillava il telefonino.

Lo psichiatra è anche colui che ha l’ultima parola, nel senso che più volte gli si chiede alla fine conferma di quanto deciso, onde evitare malintesi.

Quindi prende la parola il coordinatore infermiere per esporre i casi e singolarmente, a seconda delle referenze delle attività e dei pazienti

( solitamente un educatore ed un infermiere lavorano insieme come referenti di particolari attività o progetti sugli utenti), si interviene per mettere al corrente il gruppo  degli accaduti.

Il dibattito è abitualmente democratico, a parte casi particolarmente fastidiosi da affrontare, come i pazienti “ difficili”.

Difatti direi che se all’O.d.G c’erano dei casi difficili, si partiva già con un’atmosfera più tesa. Pertanto a determinare il clima della riunione danno una mano anche i pazienti.

L’ultima parte della riunione è sempre la più confusa: tutti vorrebbero intervenire, spesso si instaurano fastidiose ,ma simpatiche, conversazioni parallele ,perché ognuno possa finire di esporre il proprio pensiero.

Raramente si finisce prima dell’ora stabilita ( è successo solo durante una partita della nazionale italiana ai mondiali di calcio!).

Per prendere la parola a volte, ma non sempre, bisogna stare con il braccio alzato per un’ora; in ciò, nell’ultimo periodo, il ruolo di referente degli educatori mi ha avvantaggiata, perché avendo preso i “ gradi” potevo essere ascoltata prima di altri, mentre ricordo che all’inizio avevo persino paura ad aprire la bocca, per timore che nessuno mi ascoltasse.

Solitamente chi è nuovo nel servizio, effettua un periodo di “studio” prima di intervenire nelle riunioni, e, quando comincia a farlo, lo fa costruendosi piccoli spazi.

Purtroppo a volte non si riesce, sempre per problemi di tempo, a dare spazio a tutti gli interventi, anche perché non tutti riescono ad essere chiari e concisi in quanto vogliono dire; per cui si assiste a lunghi monologhi o sfoghi per mostrare il proprio disaccordo, che , a parer mio, andrebbero calibrati, perché bisogna pur rendersi conto che si è in una riunione di lavoro, e non ad una psicoterapia di gruppo, come potrebbe essere intesa magari la Supervisione.

E’ comunque un avvenimento molto “snervante”, perché tenere il filo delle conversazioni è quasi sempre difficile,soprattutto perché bisogna imparare, come dice la collega E.S., “ a dire ciò che si pensa, in modo appropriato, altrimenti si rischia di essere considerati petulanti o, ancora peggio, di perdere il lavoro.

Mi  è successo ad esempio, durante le riunioni, di iniziare a parlare per poi perdermi in ciò che dicevo, senza saper più bene cosa dire, e questo non credo per mancanza di coerenza, quanto piuttosto per la tensione di avere tanti occhi puntati addosso che sono in attesa di capirti, o contraddirti.

Al termine della riunione il medico, lo psicologo e altri eventuali ospiti ( ass. sociale, tirocinanti ecc, ecc.) generalmente vanno via, mentre il resto del gruppo si riunisce per la pausa caffè, che in sostanza è un post-riunione molto ricco di scambi, dove, chi non è riuscito prima, dice la sua, e senza mezzi termini, tanto non si viene verbalizzati in quelle occasioni!

Questo post- gruppo è anche un modo per scaricare  le tensioni accumulate nelle due ore precedenti, perchè riuscire ad interagire  con tanti e tutti insieme, è a volte arduo.

Il passaggio di informazioni non avviene dunque solo nei momenti istituzionalizzati come tali, ma anche al di fuori, perciò è importante “l’ascolto” dell’intera dinamica.

Dopo la riunione c’era un ulteriore passaggio di consegne tra i cambi turno, e si creava a volte tanta confusione!

Durante i cambi orali si notano delle forti particolarità nell’inversione dei luoghi e delle scenografie: l’occupazione dello spazio, l’orientamento del gruppo, la sua focalizzazione, il modo di prendere la parola, tutti questi elementi contribuiscono a disegnare scene ben distinte del servizio.

Inizialmente , come gruppo, si tendeva ad affettuare “le consegne” in ufficio o nell’infermeria, e comunque la dove il paziente non potesse ascoltare. L’invadenza dell’utente, con il quale si sta già a contatto per tutto il giorno, infatti, limita non poco l’espressività di chi sta parlando, e nell’ultimo periodo si stava lavorando proprio su come arginarla, in modo da poter confrontarsi, nei minuti di cambio turno, con la dovuta “ pace mentale”.

Ciò che ho notato, con curiosità ,è che, mentre in alcune situazioni era il collega smontante a stare in piedi, e quello in arrivo a sedersi per prestare attenzione a quanto riportato, in altre accadeva il contrario.

Tendenzialmente ho interpretato la cosa in base alle caratteristiche personali di ognuno.

Alla fine, ci siamo resi conto, inoltre, che gli scambi non avvenivano più solamente nell’ambiente isolato, ma la frenesia dell’informazione passata a tutti i costi, ci vedeva conferire anche durante il pranzo o la cena, nel corridoio, accompagnando il collega all’uscita ( anche alla macchina), o quando ci si incontrava al bar ( quindi anche fuori dall’habitat professionale in senso stretto).

La durata dei cambi turno è molto variabile, la partecipazione anche.

In talune circostanze siamo stati persino “sgridati”, ad esempio dalla nuova coordinatrice, di soffermarci troppo a parlare, parlare, parlare!

E forse è  vero che piuttosto di mille parole, andrebbe bene anche dire con i fatti.

Un altro momento di scambio collettivo,di cui prima accennavo e che  a parer mio è importante se fatto bene, che tra l’altro oggi va molto di moda  nei  servizi e nelle équipe pluridisciplinari, è la Supervisione , il cui scopo è l’analisi del lavoro del gruppo  degli operatori, relativo ai casi più difficili, ma anche alla gestione dei conflitti, cui dedicherò successivamente un paragrafo, che si creano nel gruppo- curante.

Proprio per questo è chiamato a condurre questa missione un mediatore non facente parte del gruppo di lavoro; solitamente è uno psicoterapeuta, esperto in psicosi, gruppi e istituzioni.

La supervisione nella mia équipe era invece condotta da una psichiatra del dipartimento, il che ha sempre suscitato alcune perplessità, soprattutto tra gli educatori, che diffidavano dell’obiettività delle sue interpretazioni, visto il coinvolgimento nell’istituzione.

Un’altra caratteristica della supervisione è l’assenza “forzata” del capo dell’équipe, lo psichiatra responsabile della CT, in quanto considerato elemento condizionante e inibente per il resto del gruppo, il che dice molto sui meccanismi che si innescano durante i confronti di gruppo.

Insomma bisogna dire che i momenti di scambio, possono essere considerati dal punto di vista delle funzioni pratiche e simboliche, nell’ordine operativo e semi-operativo, come attività di confronto, di interpretazione, di valutazione, di decisione, di programmazione, di anticipazione e di formazione e dal punto di vista sociologico e psicologico, come mezzo per una visione del collettivo, come strumento di controllo e giustificazione e come espressione delle emozioni di lavoro.

Lo scambio gioca un ruolo di arricchimento reciproco di esperienze: e quando questo è collettivo e si sviluppa nello spazio del pubblico servizio, da modo di esprimersi come gruppo con una propria identità, vedi il post-riunione di gruppo che ormai è sacro quasi come la riunione stessa.

Non nego che lo scambio può diventare anche occasione di scontro o comunque di incomprensioni. Un episodio, che mi ha lasciato molto riflettere, risale alla scorsa primavera: ero appena tornata in Comunità dopo una quindicina di giorni dedicati alle sessioni d’esame all’università.

E’ un venerdì mattina; al mio arrivo trovo sulla scrivania dei moduli che gli educatori avrebbero dovuto compilare, firmare e consegnare al coordinatore infermiere, anche questo avvicendatosi qualche mese prima, Franca DP.

Ho chiesto quindi ai miei due colleghi in turno quel mattino, E.B. e D.R., cosa fossero quei fogli. La risposta, vaga da entrambi, è stata che li avevano portati in comunità i gestori della cooperativa dei servizi interni alla struttura ( mensa, servizi ausiliari ), e che bisognava appunto restituire compilati con una breve crono storia professionale e con l’autorizzazione al trattamento dei dati personali.

A quel punto il mio compito era quello di contattare il coordinatore educatori per informarlo ed eventualmente avere l’autorizzazione da parte sua a compilare quei fogli.

Sembra strano, ma anche per riempire un semplice pezzo di carta, bisogna fare i conti con un’iter comunicativo di passaggio da far  paura!

La risposta del mio coordinatore, S.M., è stata quella di non compilare assolutamente nulla  fino a quando lui stesso non avesse visionato il tutto.

A ciò, aggiunge di passare l’informazione ai colleghi dell’équipe operante nella CT al piano superiore al nostro.

Come da consegna vado su dai colleghi per informarli del colloquio telefonico sostenuto qualche minuto prima con S.

In ufficio c’era buona parte dell’équipe educatori, ma anche Franca DP, che coordinava entrambi le comunità.

Per non disturbare il loro lavoro, mi sono fermata sulla soglia e, velocemente, senza ritenere opportuno chiamare in disparte la referente educatori per riferirle su quei moduli, ho passato l’informazione a tutti i presenti.

Avevo appena finito di parlare, quando F., interviene, con tono abbastanza alterato, riferendo che i moduli li aveva lasciati lei sulle scrivanie e che avrebbe riferito in riunione sul motivo per cui andavano compilati e firmati. Non  era una cosa che doveva decidere il coordinatore educatori, ma andava gestita all’interno dell’équipe.

A quelle affermazioni non ho risposto assolutamente nulla, anche perché non avevo gli elementi per farlo: mi ha solo turbato il tono con cui F. ha ribattuto,secondo me poco opportuno vista la leggerezza dell’informazione e visto che si affrontano problemi più grandi  tutti i giorni.

Di conseguenza ho solo spiegato alla stessa che ero appena rientrata e che l’informazione che mi era stata data era diversa. Ma visto il malinteso, mi sarei occupata io stessa di risolvere con il coordinatore educatori e che rimandavamo alla riunione i successivi chiarimenti sul materiale.

Tornata in CT ho riferito ai colleghi il tutto, ancora perplessa per l’accaduto. Quindi ho preferito segnalare per iscritto sul diario quotidiano la corretta informazione, in attesa delle indicazioni per la compilazione.

Quello stesso giorno F., è venuta a parlare con me per spiegarmi la funzione di quei sacrosanti moduli[3], ed allo stesso tempo voleva in qualche modo scusarsi per non aver avvisato anche gli altri, lasciando solo fogli volanti sulla scrivania, di cui nessuno sapeva nulla, e che hanno lasciato spazio a svariate interpretazioni.

Analizzando l’accaduto, mi viene subito da dire che l’errore sta a monte, nel passaggio dell’informazione, in modi e con elementi diversi, ma nessuno forse, corretto.

C’è stata una leggerezza di F., ma anche mia che, rientrata in quel momento, non ho approfondito la ricerca delle informazioni e mi sono affidata alle prime voci di corridoio.

Tutto sommato, l’argomento in questione non era di importanza rilevante ai fini del nostro lavoro, ma come questo, sono tanti i passaggi  inesatti delle informazioni, o le comunicazioni distorte che creano piccoli e grandi disagi, a volte sentimenti di rivalsa perché questo o quell’altro collega non hanno scritto cosa c’era da scrivere o perché mi ha risposto con un tono poco disponibile.

A posteriori mi rendo conto che è abbastanza elementare individuare il gap comunicativo, almeno nell’episodio appena descritto, anche se non so quanto la mia interpretazione possa essere scevra da condizionamenti, essendone coinvolta in prima persona.

Tuttavia a volte basterebbe fare tesoro di situazioni così, che non compromettono di certo l’intervento su un paziente, ma oscurano prima, e poi schiariscono, se ben coltivate, le dinamiche interelazionali nel cast di operatori.

Questi scambi sono occasioni di discussione, di confronto, di elaborazione di esperienza, di interrogazioni sulle decisioni d’intervento. Ma  anche istanza di giustificazione delle azioni di ciascuno e del gruppo, giustificazione necessaria nel nostro mestiere, dove la responsabilità permanente di fronte all’utenza e l’interdipendenza delle azioni tecniche, obbligano ciascuno a rendere conto presso un collettivo.

Rispolverando un po’ di teoria si possono individuare tre modelli di scambi nei servizi:

  1. un modello operativo, orientato verso l’organizzazione delle azioni da fare come personale curante, che valorizza la rapidità (scambi brevi e mirati) e l’utilità immediata dell’informazione (le azioni del discorso sono istruzioni piuttosto che descrizioni);
  2. un modello epistemico , orientato verso la comprensione del contesto di azione, la valorizzazione delle conoscenze e la precisione di espressione (tabelle sistematiche dei modi di intervento, grande precisione tecnica del vocabolario);
  3. un modello familiare-democratico, orientato verso la messa in comune delle difficoltà di ciascuno, la valorizzazione dello scambio (stile di conversazione informale, espressione delle incertezze).

Questi stili di scambi appaiono poi in coerenza con lo stile organizzativo, che indica più generalmente la personalità del servizio, e cioè la maniera di ripartire il lavoro, di pianificarlo, il modo di intervento del coordinatore, i rapporti di inter-équipe, tutti elementi che emergono a seguito delle attività, delle riunioni ecc, ecc.

Qualsiasi cosa possa minacciare dunque la riorganizzazione del tempo di lavoro, i momenti di scambio si rivelano degli istanti estremamente preziosi, e non soltanto per la continuità dell’informazione, ma altresì per la coesione dell’équipe, per la divisione e il confronto dei valori di lavoro e delle regole del mestiere e per la riflessione sulle condotte e sugli sviluppi di alcuni saperi.

In ultimo bisogna sottolineare che il confronto del collettivo durante gli scambi, evita qualsiasi personalizzazione del lavoro e permette di rendere il più obiettivi possibili i punti delicati realizzati dalla coordinazione: non solo, suscita riflessioni e permette le espressioni del non detto.

Insomma, potrei concludere, in merito alla scambio, che questo fa si che l’équipe esista e si identifichi come tale,senza come né perchè, meglio ancora che durante la riunione d’équipe.




[1] “Etnografia della tossicodipendenza, cultura dell’eroina e liminalità sociali”

[2] Grosjean e Lacoste, 1998

[3] Era  un’indagine territoriale dell’ASL 4 alla quale servivano le informazioni sulle qualifiche degli operatori dei servizi psichiatrici .