Conferenza pronunciata a Palermo, il 17 aprile 1997, nell'ambito delle attività della "Libera cattedra alfonsiana per la cultura planetaria", e pubblicata in "Segno", n. 191, gennaio 1998, pp. 23-28.


Francesco Aqueci

Crisi e progresso in morale


1. Cos'è una crisi morale? Attraverso la descrizione che ce ne fa un grande scrittore, Ismail Kadarè, possiamo osservarne una che ci sta riguardando da vicino, cioè la crisi morale dell'Albania.

«Il posto lasciato vacante dalla morale implacabile e trasversale del comunismo, invece di essere occupato da un'etica di livello superiore ha prodotto un vuoto colmato dall'amoralità. Come per reazione a questa desolazione, il rigore e l'idealismo ingannevole del comunismo hanno scatenato una rabbia materialista e una corruzione senza precedenti. Questa febbre materialista ha avuto la meglio dappertutto, diventando quasi il volto del nuovo ordine democratico» (I. Kadarè, «Suicidio da fermare», La Repubblica, 13 marzo 1997, p. 2).

C'è un elemento abbastanza curioso in questa descrizione di Kadarè. A lungo il comunismo è stato condannato per il suo materialismo. Kadarè parla invece di un idealismo comunista rigoroso e implacabile. A mio modo di vedere, egli va più vicino alla sostanza delle cose di quanti, soprattutto ecclesiastici, accusarono il comunismo di materialismo. Non basta che una morale sia immanentista e scientista perché essa sia anche materialista. Il fatto, però, è che, come denuncia Kadarè, si trattava di un idealismo non solo rigoroso e implacabile, ma soprattutto ingannevole. Cosa vuol dire ingannevole? Un'altra testimonianza, per così dire sul campo, ci aiuta a capire. Sempre nei giorni iniziali della crisi albanese, le suore italiane di Argirocastro, ultimo caposaldo nel crollo di ogni centro di vita civile, dichiarano ad un giornalista:

«Il regime comunista ha raso al suolo il valore della solidarietà, perfino della solidarietà all'interno della stessa famiglia. Il partito era la mamma, il dittatore, il papà, e accadeva che i fratelli spiassero i fratelli per conto della polizia segreta» (La Repubblica, 21 marzo 1997, p. 6).

Ecco, qui vediamo emergere un meccanismo della crisi morale. Non è solo la molla a lungo compressa del bisogno di beni materiali che porta alla regressione morale. C'è anche qualcosa di intrinseco al meccanismo morale che non funzionava nel precedente assetto e che apre le porte alla crisi. All'ingrosso, possiamo dire che una buona morale si fonda sul corretto funzionamento dei rapporti fondamentali di rispetto: padri-figli, discenti-docenti, governanti-governati. E sul giusto equilibrio tra questi differenti rapporti. L'idealismo ingannevole del comunismo è consistito nello stravolgimento di ciascuno di questi rapporti (il carattere rigoroso e implacabile della norma di cui parla Kadarè), e nell'alterazione dell'equilibrio tra questi rapporti stessi, poiché tutti sono stati assimilati al rapporto politico governanti-governati. Questo ha portato alla scomparsa di quel sentimento che le buone suore di Argirocastro chiamano la solidarietà, cioè di quei legami, per così dire, "spontanei" di fiducia che un buon assetto morale deve coltivare e promuovere all'interno di ciascun rapporto, e comporre in una sintesi che salvaguardi gli ambiti di ciascun rapporto. Per provocare simili disastri non bisogna per forza essere dittatori alla Enver Hoxha e imporre l'ingannevole morale comunista. Basta alterare, anche con altri mezzi che non siano l'ideologia e la polizia segreta, quel delicato meccanismo morale cui prima ho accennato, per avere un assetto morale squilibrato quanto quello albanese, così come, fatte salve tutte le ovvie differenze, ci testimonia l'endemica violenza mafiosa in Sicilia. Qui si è permesso che il rispetto venisse stravolto in un allucinato sentimento di morte, nel dilagare del materialismo consumistico, come direbbe Kadaré, con la politica ambiguamente ridotta ora a serva ora a padrona. Insomma, è stato sufficiente essere un Giulio Andreotti per arrivare a risultati non molto dissimili nella sostanza da quelli di un Enver Hoxha ‹ e per affermare questo, non dobbiamo certo aspettare che un qualche tribunale della Repubblica si pronunci.

2. Crisi morale del comunismo, crisi morale della mafia, ed altre ancora se ne potrebbero indicare. Da qui la saggezza di parlare non della, ma delle «crisi della morale». Ma si potrebbe anche mettere tutto al plurale, e parlare delle «crisi delle morali». Infatti, ogni epoca, ogni paese, ogni strato sociale dà un suo tono alla morale, tanto da farne un prodotto per molti aspetto unico. Ciò è stato sottolineato più volte, come pure il fatto che sembra proprio della morale un andamento ciclico: nascita, sviluppo, decadenza, corruzione, morte. A differenza della scienza (di una certa idea di scienza), la morale non sembra essere né cumulativa né nei suoi asserti confutabile ‹ un carattere, questo, che non è tenuto sufficentemente in conto da certi propugnatori di una nuova e totalizzante morale che dovrebbe discendere dall'inarrestabile sviluppo tecnico-scientifico. Si prenda il caso delle tecniche che manipolano la nascita, dall'ormai innocua inseminazione artificiale alla più spinta manipolazione genetica. La tecnica va avanti, ma il pensiero morale ne interpreta i risultati come in un ovattato mondo di sogno. In Israele, riferiscono le indiscrete gazzette, una vacca di colore bianco è inseminata artificialmente con il seme di un toro statunitense di colore rosso. Ne nasce una vacca rossa. Per i rabbini è la festa: secondo i sacri testi, è il segno che si attendeva per "purificare" la totalità del popolo ebraico dall'impurità provocata dal contatto con i morti e permettergli per la prima volta di rientrare nella zona del Tempio di Gerusalemme, oggi nota come spianata delle Moschee. E non sono certo solo i rabbini a praticare questa sognante ermeneutica, per altro, dagli effetti pratici molto aggressivi, visti i suoi risvolti politici. Si potrebbero infatti rinvenire esempi anche per altre confessioni religiose. E poi, la stessa scienza-tecnica, non è essa stessa all'origine di nuove credenze e di nuove divinità, come il dio computer, per il quale si sacrifica, in riti collettivi, la propria vita? Chi ha detto allora che il pensiero religioso-morale sta recedendo, vinto dalla «potenza della tecnica»? Dunque, le crisi della morale, ma anche le crisi delle morali. Tuttavia, è anche vero che tra una rivoluzione morale e l'altra, nel senso antico di quel termine, cioè come processo periodicamente ricorrente, permane un nucleo costante di principi che presiedono alla generazione dei contenuti particolari delle singole morali. Secondo qualcuno (Wilson), questi principi possono essere indicati nella simpatia, nel senso dell'equità, nel controllo di sé, e infine nel senso del dovere. Ciò constatato, resta però da spiegare perché questi principi guidano il nostro comportamento. Vorrei citare almeno due risposte. C'è chi afferma che quei principi e, in generale, la morale risponde alla necessità di assicurare la sopravvivenza della specie. Un vigoroso, anche se marginale, sostenitore di questa posizione è stato Vilfredo Pareto. Oggi se ne conosce una versione salottiera ad opera di Eugenio Scalfari, entusiasticamente recensito da Umberto Galimberti su un giornale notoriamente estraneo a Scalfari, quale «La Repubblica». Una seconda risposta è quella di chi afferma che l'uomo, essendo intelligente ‹ attenzione: intelligente, non razionale ‹ si comporta moralmente poiché trova che la morale sia un gioco sufficientemente interessante da sollecitare la sua intelligenza. Un sostenitore di questa tesi è oggi Raymond Boudon, che la fa risalire a Max Weber. Trovo questa seconda risposta abbastanza realistica in alcuni casi, ma generalmente un po dandy. Quanto alla prima, non spiega abbastanza perché la morale, se è biologicamente adattativa, deve ricorrere all'arcigna entità del dovere per imporre i suoi dettami. Insomma, in morale, se si sfugge al problema della razionalità, e e se non si affronta di petto la questione del dovere, si rischia di costruire risposte contraddittorie o comunque insoddisfacenti. Kant ha preso talmente sul serio questi due problemi che la sua morale è stata tacciata di rigorismo e di formalismo. Non che non vi siano elementi che non giustifichino, almeno in parte, tali imputazioni, ma volere mettere da parte la spiegazione razionale del dovere di Kant, sarebbe come voler costruire una casa su malcerte fondamenta. Tale spiegazione è servita come punto di partenza ad un Piaget nelle sue indagini psicogenetiche, le cui implicazioni per la riflessione morale non sono state ancora tutte esplicitate. Piaget delinea una concezione genetica della morale, nella quale, all'originaria e spontanea simpatia reciproca tra madre e figlio, subentra il lungo inverno del «rispetto unilaterale», dove la figura dominante è quella del dovere, per poi arrivare al «rispetto reciproco», quando la simpatia riappare sotto forma di reciprocità normativa. Un teorico della politica come Norberto Bobbio, ragionando intorno alla nostra epoca, che egli chiama l'«età dei diritti», ha riconosciuto che «all'inizio», ed egli parla proprio di un inizio storico o, se si vuole, filogenetico, «le regole sono essenzialmente imperative, negative o positive, e mirano a ottenere comportamenti desiderati o a evitare comportamenti non desiderati ricorrendo a sanzioni celesti o terrene» (L'età dei diritti, p. 53). Da qui la sua conclusione che «la figura deontica originaria è il dovere, non il diritto» (ivi, p. 54). Rispetto a questa prospettiva, già di per se stessa evolutiva, Piaget ci invita ad indagare se, ancora prima del dovere, non ci sia la stagione, per quanto breve, della simpatia, e se l'età dei diritti non sia possibile se non in forza di quell'originario imprinting. Insomma, Adam Smith, con il suo principio di simpatia, e Kant, con il suo principio del dovere, non devono essere per forza due prospettive divergenti e inconciliabili.

3. Da questa prospettiva genetica, che suggerisce come la morale si costruisce nella polarità simpatia-dovere, viene l'idea difficile, e apparentemente contraddittoria, di progresso morale. Se infatti la morale, come un astro, segue una rivoluzione ciclica, come si può parlare di progresso morale? Norberto Bobbio ci invita a sfidare questa contraddizione quando interpreta l'età contemporanea come l'età dei diritti, e vede in essa un «segno premonitore» di progresso morale (ivi, p. 50). Per Bobbio, l'età dei diritti è il giungere a maturazione di secolari conquiste, quali l'emergenza dell'individuo, la secolarizzazione dell'etica cristiana ad opera del giusnaturalismo, la trasformazione dei rapporti di potere tra principi e sudditi, tra governanti e governati nel senso di una crescente reciprocità (ivi, pp 57 e 61). Tuttavia, egli anche avverte:

«Poiché ho interpretato la vastità che ha assunto attualmente il dibattito sui diritti dell'uomo come un segno del progresso morale dell'umanità non sarà inopportuno ripetere che questa crescita morale si misura non dalle parole ma dai fatti. Delle buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno» (Bobbio, L'età dei diritti, p. 64).

Quest'avvertimento è quanto mai opportuno. E non riguarda solo l'eventuale distanza che può separare l'enunciazione dei diritti dalla loro pratica attuazione, ma anche il modo stesso di avanzare diritti. Si prenda il modo in cui avanza diritti un Peter Singer, il teorico dell'animalismo che, in un suo recente libro dedicato a questioni di bioetica, si fa alfiere di una nuova morale della qualità della vita. Egli contesta la morale verbale della sacralità della vita che avrebbe governato i duemila anni di storia cristiana, in nome di una morale pratica che riconosce agli individui il diritto al suicidio, all'aborto, all'eutanasia, e si spinge sino al riconoscimento di un diritto alla vita degli animali. Ma con quali argomenti? Per quanto riguarda il diritto all'aborto, per esempio, spesso i suoi argomenti sono la semplice traduzione di volizioni del tipo: «questo figlio non lo voglio, dunque abortisco». Ma è sul riconoscimento dei diritti degli animali che i suoi argomenti diventano inquietanti. Singer arriva a sostenere che poiché una vita vale la pena di essere vissuta solo se vi è coscienza, e poiché bambini down e neonati mancano all'evidenza di tale requisito, a differenza di molte specie animali, dove può trovarsi ben più di un barlume di coscienza, allora possiamo uccidere bambini handicappati e neonati, mentre dovremmo astenerci dal farlo per gli animali, per esempio uno scimpanzé. Il che è, se vogliamo, una ben curiosa proiezione sugli animali di quell'immagine dell'uomo forgiata dall'etica tradizionale, e ciò nel momento stesso in cui la si contesta, con la conseguenza veramente aberrante di giustificare l'uccisione di un neonato e di condannare la soppressione di uno scimpanzé! Il caso di Singer, insomma, mi sembra un ottimo esempio del rischio, paventato da Bobbio, che le buone intenzioni di cui si nutre la contemporanea età dei diritti lastrichino una via che ci conduce diritti all'inferno. Come abbiamo visto, Bobbio dice che «riflettendo sul tema dei diritti dell'uomo, mi è parso di cogliervi un segno del progresso morale dell'umanità» (ivi, p. 65). Ma di fronte a certi fatti e a certi argomenti, c'è da chiedersi se il progresso morale non possa essere compromesso dalla richiesta scriteriata di diritti, e se, al contrario, non possa essere assicurato dal ritorno dell'originaria figura deontica del dovere. Il regista Roman Polanski, protagonista negli anni settanta di un celebre e controverso caso di violenza sessuale su una tredicenne, intervistato vent'anni dopo su quella vicenda, dice:

«Si ricordi, erano gli anni Sessanta. Facevamo tutto. Era il periodo dell'amore libero. Era l'Utopia. La società era spinta in avanti dalle speranze dei giovani. E noi eravamo giovani allora. Ma tutti abbiamo fatto cose che avremmo poi rimpianto» (La Repubblica, 11 marzo 1997, p. 12).

Ciò che questa testimonianza mette in evidenza è che quando, dopo la trasgressione, interviene il rimpianto per ciò che si è fatto, sorge poi il bisogno di recuperare il rispetto per la norma. Il rispetto per la norma è un tema tipicamente kantiano, ma è stato mostrato (Bovet, Piaget) come esso celi il tema più profondo e primario del rispetto per la persona che pone la norma. Dopo la trasgressione, un'altra modalità di crisi della morale, c'è dunque la necessità di ricostruire i rapporti di rispetto: padri-figli, insegnanti-discenti, governanti-governati. Operazione rischiosa, che è stata sempre sinora attuata da forze che tendono a scorciare i problemi, imponendo più che il rispetto, l'autorità della persona e della norma. Questa perciò è la sfida nuova, togliere a queste forze il monopolio di questa operazione e portarla a compimento senza semplificare d'autorità i problemi.

4. Nel ritorno del dovere, nella ricostruzione dei rapporti di rispetto, non c'è solo il rischio reazionario da evitare. Si pone anche il problema di far sì che la nuova (anche se sempre provvisoria) morale non sia solo, e tradizionalmente, una morale della pura intenzione. Marx risolse questo problema introducendo l'elemento rivoluzionario. Come notò un suo fine interprete italiano, Cesare Luporini, il «regno della libertà» di cui Marx parla alla fine del Capitale, ha una profonda parentela con il «regno dei fini» di Kant. Egli ne fece anzi il presupposto perché quel «regno della libertà» non fosse privo di senso. Ciò però a condizione di sottrarlo al cielo speculativo, e di farne il risultato del processo rivoluzionario stesso (C. Luporini, Introduzione a K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. XLVII). Quest'interpretazione si distingue per la capacità di rintracciare un forte elemento di kantismo in Marx, il quale esplicitamente con Kant intrattenne rapporti fugaci, quando non critici. Quest'interpretazione però non tiene conto di quanto la storia ha dimostrato, e cioè che la rivoluzione non è un buon strumento per realizzare il «regno dei fini» di Kant. Arriva anzi sino a distruggerne la possibilità di realizzarlo, poiché rovina quelle determinazioni universali che Marx critica quali ipostasi di rapporti sociali storicamente determinati, ma che nei fatti invece si rilevano essere ideali regolativi dei quali la coscienza critica ha bisogno come del suo nutrimento. Ciò detto, permane il rischio che la coscienza critica, senza il radicalismo rivoluzionario di Marx, si trasformi in una quieta anima bella, e che il kantiano «regno dei fini» rimanga una vuota chimera. L'errore di Marx e dei marxisti è consistito, allora, nel voler costruire una scienza della rivoluzione, intesa come una certa critica dell'economia politica, e nell'identificare il regno dei fini o della libertà con un astorico e definitivo comunismo. Invece, tanto la rivoluzione in quanto strumento, quanto il regno dei fini sono immersi nella storia, "situati", ogni volta nuovi ed originali così come lo richiede la situazione particolare di oppressione dell'uomo sull'uomo, in cui sorge l'esigenza di affermare la giustizia e i diritti. Solo l'accettazione piena di questo dato ci può sottrarre al pericolo di tornare ad edificare implacabili ma ingannevoli paradisi terrestri.


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